
“Moby Dick è il racconto complicato di una ossessione e di tutta la vita che serve per spegnere l’ossessione e raggiungere lo scopo. E’ una storia che ci rende tutti uguali, perché ciascuno di noi ha la sua Moby Dick (...) Ogni volta, in ogni situazione, puoi riprendere la navigazione e andare a cercare Moby Dick. Anche se ti ha ferito, anche se c’è l’ignoto da affrontare. (...) Per me non è difficile inseguire Moby Dick per il semplice motivo che non ho mai pensato che non l’avrei trovata. So che è lì, in mare, da qualche parte che mi aspetta. Mi ha fatto degli sgarbi, mi ha creato dei problemi, ma questa è la condizione umana: le persone sono fatte per essere ferite e per rialzarsi. Se uno non ha mai sofferto, non può capire di essere pienamente felice. (...) E se hai conservato le energie giuste, arriva sempre il momento che incontri Moby Dick e sai che il viaggio ha avuto senso. Anche se è durato una vita”.
Sono le ultime, sentite ed emozionanti pagine dell’autobiografia di Giuseppe Rossi “A modo mio (My Way)”. My Way, come la canzone di Frank Sinatra, la canzone che suo padre amava, e che è rimasta immortale nel tempo. Un titolo che è un omaggio di un italo americano a un altro grande italo americano. Per raccontarsi e raccontare come ha fatto tutto a modo suo. Attraverso 15 capitoli che portano ognuno il titolo di grandi romanzi americani e chiudendosi con Moby Dick. “E’ la parte migliore, la più bella e la più emotiva. Quando la leggerete mi farete sapere su Twitter”, risponde quando gli chiedo di questo libro, e fa subito capire che è il capitolo che più gli è caro.
Pepito è davvero una persona speciale, un campione vero che il successo non ha cambiato. Lo rivela l’estrema gentilezza con cui risponde personalmente su Twitter ai tifosi. Lo rivelano il coraggio e la determinazione con cui ha superato la difficoltà di un infortunio ripetutosi più volte, l’ultima quand’era all’apice dopo i primi folgoranti mesi con la Fiorentina e la strepitosa tripletta contro la Juventus. Sempre con la voglia di tornare in campo più forte di prima e vincere la partita più importante di tutte, quella contro le avversità.
“E’ stato bello rivivere il mio passato e metterlo nel libro, ricordare alcuni momenti come l’infortunio è stata la parte più difficile, perché cerchi sempre di dimenticare, però raccontare come ho fatto, insieme alla squadra e alla mia famiglia, a superare questi momenti forse è la parte più forte.”
Il libro, edito da Mondadori e scritto con Alessandra Bocci, si snoda con la piacevolezza di un romanzo. Dagli anni alle giovanili del Parma, quelli in Inghilterra, al Manchester United, a cui è approdato a soli 17 anni, quelli in Spagna al Villareal. “La Spagna è il posto che mi ha fatto diventare Pepito, il soprannome che mi ha dato Bearzot perché gli sembravo simile a Pablito Rossi. Devo dire la verità, a casa mia trovano un po’ strano sentirmi chiamare Pepito, mia sorella e mia madre mi chiamano Pepito quando vogliono prendermi in giro perché sono un calciatore famoso. Ci si scherza su, ma è anche una bella soddisfazione” scrive.
Poi l’arrivo a Firenze, la bellezza della città, l’affetto dei tifosi fiorentini, che gli sono stati vicini e che sarebbero scesi in piazza dopo l’assurda esclusione dal Mondiale Brasiliano (che, con lui in campo, avrebbe avuto una storia diversa). Che credono in lui perché “ai fiorentini, per carattere e tradizione, piacciono le sfide e le cose difficili. Dev’essere per questo che gli Americani amano Firenze: lo stesso spirito battagliero di chi ha costruito l’America, e in più un’incredibile bellezza.”

Pepito appartiene a quella magica classe calcistica, il 1987, a cui appartengono tanti campioni. Appare strano un’autobiografia a soli 27 anni, ma per lui il momento lo richiedeva.
“Abbiamo deciso di realizzare questo libro perché era il momento per far conoscere più l’uomo che il calciatore di cui ormai tutti sapete e anche di raccontare questo viaggio pieno di sacrifici, diverso rispetto agli altri. Proprio per questo ho deciso di chiamarlo “A modo mio – My Way”, proprio perché è un viaggio unico. Perché dovrete leggerlo, e vedrete”.
Giuseppe Rossi è un’anima divisa in due, parte di lui è italiana, parte americana. “Been around the world, hometown is always New Jersey” recita il suo profilo twitter. Tifoso degli Yankees, ama gli sport americani, ma è al calcio che si è subito dedicato, i suoi piedi, il suo gioco sono italiani. Perfino il titolo del libro è stato scelto volutamente in due lingue.
“Ma ti senti più italiano o più americano?”
“La mia storia è divisa tra l’America e l’Italia. Quando sono in campo mi sento italiano perché da bambino sono cresciuto guardando la serie A, mi svegliavo tutte le mattine proprio per vederne le partite, e anche come calciatore sono cresciuto nelle giovanili del Parma, dunque a livello calcistico mi sento molto italiano. Ma è normale che abbia qualcosa di americano perché sono nato lì e lì ho vissuto i primi 12 anni della mia vita e ho acquistato quella mentalità che mi porto dietro di affrontare certe situazioni. Credo sia proprio quella la mia parte americana”.
Le sue passioni sono molte, i suoi interessi vari. “Molti dei titoli di romanzi americani che hai messo ai capitoli del tuo libro sono anche titoli di film. Sei anche un appassionato di cinema?”
“Sì, mi piace, lo seguo molto”
“Il tuo sogno, la tua Moby Dick?”
“Il Mondiale. Quello che vorrei raggiungere insieme a questa Nazionale, perché quella maglia azzurra pesa tanto. So che tornerò più forte, quando non so, perché voglio prendere tutto con tranquillità, rispettare le tempistiche. Ci vuole tempo, ma sento di essere sulla strada giusta”.
E Pepito, con serenità, aspetta di ricordare a se stesso le parole di Shakespeare “Ora l’inverno del nostro scontento si è mutato in luminosa estate”.