Ambientato tra Ostia e dintorni, “Amore tossico” racconta la storia di un gruppo di giovani tossicodipendenti romani, i quali trascorrono la propria drammatica esistenza tra la spiaggia di Ostia e la capitale tra consumo di stupefacenti, litigi, piccoli furti e la labile speranza di poter finalmente cambiare vita. Girato nel 1983 per la regia di Claudio Calidari, la pellicola si presenta come un vero e proprio film-verità di taglio quasi documentaristico, nel quale il regista cala, in un’ambientazione da sapore “post-pasoliniano”, la tragedia di questi giovani con le braccia trafitte dai buchi e dai lividi e l’animo ormai sopraffatto dalla pena e dal disordine del vivere. In rispetto della grande tradizione neorealista, gli interpreti non sono attori, ma giovani i quali avevano già vissuto, e purtroppo ancora vivevano, la tragedia della tossicodipendenza, così da rendere ancora più “crudo” il film che, non a caso, alla sua uscita fu definito “tagliato”, proprio come si dice dell’eroina. Ecco spiegato, nonostante il finale melodico e melodrammatico, l’onesto atteggiamento frontale, il linguaggio disadorno e lucido, il tentativo di suscitare contemporaneamente rispetto e pena. La scelta di Caligari di utilizzare dei veri tossicodipendenti gli creò non pochi problemi, innanzitutto perché nelle scene in cui i protagonisti si drogavano, le dosi erano reali anche se leggere per non stravolgere troppo il corso, seppur minimo, della recitazione. Ma le difficoltà furono anche di tipo “logistico” a causa della reperibilità degli interpreti, che in molti casi venivano arrestati, o riguardavano l’interpretazione in sé per sé, dato che a volte gli “attori” venivano colti da improvvise crisi di astinenza proprio durante le riprese; come non ricordare, ad esempio, che in una delle ultime scene Loredana viene interpretata da un’attrice diversa, proprio a causa di un a crisi che aveva colpito la Loredana originale. Altre curiosità di “Amore Tossico” riguardano la sorte, molto spesso infelice, alla quale sono andata incontro molti dei suoi interpreti; Cesare, dopo essere riuscito a disintossicarsi, morì nell’89’ di AIDS, mentre Michele Mioni vide la sua carriera stroncata dall’ennesimo arresto per droga. Ma ciò che più colpisce di questo film è senza dubbio la totale assenza di finzione scenica, testimoniata non solo dal fatto di avere come protagonisti degli attori non–attori, ma anche dalla scelta voluta di utilizzare un linguaggio molto diretto, volgare al limite del blasfemo, così da rendere ancor più veritiero e drammatico quanto veniva raccontato. Molti sono anche i richiami alla grande tradizione. Dagli espliciti rimandi al cinema pasoliniano, al quale si aggiunge anche una sorta di dedica quando il regista decide di ambientare la scena della morte di Michela davanti al monumento dedicato alla memoria di Pasolini, alle inquadrature molto ravvicinate agli occhi che richiamano “L’uomo dal braccio d’oro” di Otto Preninger(1955). Insomma un grande film italiano, potremo sicuramente dire di culto che però tra i molti rimane sconosciuto, sepolto nella dispregiata categoria dei B-side.