Sei un fan di Lee Marvin?

16/05/2008

“Scommetto che sei un fan di Lee Marvin” dice Harvey Keitel al duro Michael Madsen in “Le iene” di Tarantino. E infatti c’è da scommetterci che un fan di Lee Marvin sia tutt’altro che una mammola.

Alto, viso lungo e spigoloso, capelli bianchi fin da giovane e crudelissimi occhietti azzurro ghiaccio che illuminano la roccia in cui è scolpito il ghigno cinico: con questo fisico non poteva essere che un “duro”, possibilmente “cattivo”.

Nato nel 1924, ex marine (ha combattuto nel ‘44 nel Pacifico), arriva al cinema per caso: lavorava come idraulico in un teatro quando gli venne chiesto di sostituire un attore assente d’improvviso. Ci prende gusto, e inizia con una serie di particine non accreditate. I suoi primi ruoli di spicco già lo vedono nella parte di “villain”: è il gangster violento  e psicotico che ustiona Gloria Grahame nel toccante “Il grande caldo” di Fritz Lang (‘53), è uno degli scagnozzi razzisti di Robert Ryan nell’insolito “Giorno maledetto” di John Sturges (‘55), è il prepotente Liberty Valance (condannato già nel titolo) nello splendido “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford (‘63), il film che gli diede fama internazionale.

Il film-mito arriva però nel ’67, “Quella sporca dozzina”, di Robert Aldrich (che lo aveva già diretto nel ’56 in “Prima linea”). Il film, coi suoi brutti ceffi eroi per caso (e per salvarsi la pelle), è un successone, e Marvin è perfetto nel ruolo del maggiore Reisman: ribelle, duro ma umano – il suo volto “buono”, anche se di roccia, che si contrappone a quello cattivo del folle criminale, altrettanto pervicace nell’inseguire i propri scopi. Del resto, la seconda metà degli anni ’60 è il suo periodo d’oro: sa essere convincente sia in ruoli quasi comici (“Cat Ballou”, “La ballata della città senza nome”), sia in ruoli bellici ( l’intrigante “Duello nel Pacifico” di John Boorman, in cui rivaleggia con Toshiro Mifune ), sia nei noir. A quest’ultimo genere appartengono due dei suoi ruoli più belli: il killer spietato ma capace di interrogarsi sulle sue vittime di “Contratto per uccidere” di Don Siegel, e Walker, il ladro vendicativo, sorta di spettro gotico, di “Senza un attimo di tregua”, sempre di Boorman: un film  culto per il virtuosismo delle riprese e del montaggio, per l'alta tensione dell'intrigo a puzzle, e per il carisma dello stesso Marvin. Tra il ’70 e l’ 80 rischia di ripetersi, ma ci regala ancora interpretazioni memorabili, come ne “L’imperatore del Nord” (sempre di Aldrich, dove duella con il sadico Ernest Borgnine) o in “Caccia selvaggia” (qui il suo deuteragonista è Charles Bronson), fino ad arrivare al  capolavoro con “Il Grande Uno Rosso” di Sam Fuller. Raramente il cinema di guerra ha toccato punte di sincerità, sgradevolezza e poesia come in quest’opera insolita, il cui assunto di base è che  “la sopravvivenza è l'unica vera gloria in guerra”, ma merito della sua riuscita è anche la recitazione asciutta e autentica di Lee Marvin: la sequenza in cui porta in spalla il bambino morto è di una dolcezza e disperazione difficilmente dimenticabile, e ci rivela in extremis un aspetto nuovo dell’attore.

È il suo canto del cigno: morirà sette anni dopo, con sole altre 4 interpretazioni, di routine, al suo attivo, lasciandoci l’impressione di un attore silenzioso e coriaceo e di un uomo vero.

Elena Aguzzi