“Scommetto
che sei un fan di Lee Marvin” dice Harvey Keitel al duro Michael Madsen in “Le
iene” di Tarantino. E infatti c’è da scommetterci che un fan di Lee Marvin sia
tutt’altro che una mammola.
Alto, viso lungo e spigoloso, capelli bianchi fin da
giovane e crudelissimi occhietti azzurro ghiaccio che illuminano la roccia in
cui è scolpito il ghigno cinico: con questo fisico non poteva essere che un
“duro”, possibilmente “cattivo”.
Nato nel 1924, ex marine (ha combattuto nel ‘44 nel
Pacifico), arriva al cinema per caso: lavorava come idraulico in un teatro
quando gli venne chiesto di sostituire un attore assente d’improvviso. Ci
prende gusto, e inizia con una serie di particine non accreditate. I suoi primi
ruoli di spicco già lo vedono nella parte di “villain”: è il gangster
violento e psicotico che ustiona Gloria
Grahame nel toccante “Il grande caldo” di Fritz Lang (‘53), è uno degli
scagnozzi razzisti di Robert Ryan nell’insolito “Giorno maledetto” di
John Sturges (‘55), è il prepotente Liberty Valance (condannato già nel titolo)
nello splendido “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford (‘63),
il film che gli diede fama internazionale.
Il film-mito arriva però nel ’67, “Quella sporca
dozzina”, di Robert Aldrich (che lo aveva già diretto nel ’56 in “Prima
linea”). Il film, coi suoi brutti ceffi eroi per caso (e per salvarsi la
pelle), è un successone, e Marvin è perfetto nel ruolo del maggiore Reisman:
ribelle, duro ma umano – il suo volto “buono”, anche se di roccia, che si
contrappone a quello cattivo del folle criminale, altrettanto pervicace
nell’inseguire i propri scopi. Del resto, la seconda metà degli anni ’60 è il
suo periodo d’oro: sa essere convincente sia in ruoli quasi comici (“Cat
Ballou”, “La ballata della città senza nome”), sia in ruoli bellici (
l’intrigante “Duello nel Pacifico” di John Boorman, in cui rivaleggia
con Toshiro Mifune ), sia nei noir. A quest’ultimo genere
appartengono due dei suoi ruoli più belli: il killer spietato ma capace di
interrogarsi sulle sue vittime di “Contratto per uccidere” di Don
Siegel, e Walker, il ladro vendicativo, sorta di spettro gotico, di “Senza
un attimo di tregua”, sempre di Boorman: un film culto per il virtuosismo delle riprese e del
montaggio, per l'alta tensione dell'intrigo a puzzle, e per il carisma dello
stesso Marvin. Tra il ’70 e l’ 80 rischia di ripetersi, ma ci regala ancora
interpretazioni memorabili, come ne “L’imperatore del Nord” (sempre di
Aldrich, dove duella con il sadico Ernest Borgnine) o in “Caccia selvaggia” (qui
il suo deuteragonista è Charles Bronson), fino ad arrivare al capolavoro con “Il Grande Uno Rosso” di Sam Fuller. Raramente il cinema di guerra ha toccato punte di sincerità,
sgradevolezza e poesia come in quest’opera insolita, il cui assunto di base è
che “la sopravvivenza è l'unica vera
gloria in guerra”, ma merito della sua riuscita è anche la recitazione asciutta
e autentica di Lee Marvin: la sequenza in cui porta in spalla il bambino morto
è di una dolcezza e disperazione difficilmente dimenticabile, e ci rivela in
extremis un aspetto nuovo dell’attore.
È il suo canto del cigno: morirà sette anni dopo,
con sole altre 4 interpretazioni, di routine, al suo attivo, lasciandoci
l’impressione di un attore silenzioso e coriaceo e di un uomo vero.