“Se
il mondo è dei vincitori, che ci stanno a fare i vinti?” “Qualcuno deve pur
tenere i cavalli” (L’ultimo buscadero)
Quando Vasco Rossi inneggiava alla “Vita
spericolata”, avrà avuto senz’altro in mente la biografia di Steve McQueen – la passione per le auto veloci e le donne, il passato da balordo e ferito
senza famiglia sempre on the road o in galera – ma anche i suoi ruoli di outsider e fuggiasco: I
magnifici 7, La grande fuga, Bullit, Papillon. E quelli, grandi, che gli ha
regalato Sam Peckinpah: il rapinatore dell’adrenalinico “Getaway!” e lo
Junior Bonner di “L’ultimo buscadero”; il primo che consolida la sua
fama di (anti)eroe cinico e sempre in movimento, il secondo duro e romantico
ex-vincente, anacronistico cowboy da rodeo alle prese con un padre ingombrante
– il volto ideale, quello di Steve, per questo film malinconico e crudele nel
suo minimalismo disfattista (15 anni dopo sarebbe stato un ruolo perfetto per
Mickey Rourke, che del tormentato McQueen è senz’altro il più diretto erede)
Del resto, Sam Peckinpah è tagliato per
disegnare uomini stanchi ma fieri, perdenti che alla fine a loro modo vincono:
si pensi alla bella coppia di vecchi amici del West (Randolph Scott e Joel
McCrea ) nello straordinario “Sfida nell’Alta Sierra” (un gioiello di
cattiveria e disillusione tutto da riscoprire), al James Caan di “Killer
Elite”, – killer vendicativo educato
alle arti marziali antesignano della Thurman tarantiniana, al Dustin Hoffman –
piccolo uomo tranquillo che si trasforma in un vendicatore sanguinario –
dell’elettrizzante “Cane di paglia”, all’orrendo Warren Oates – killer
del lisergico “Voglio la testa di Garcia”, e ai suoi gruppi di
violenti disperati di “Sierra Charriba” e del mitico, pessimista,
sgradevole, elegiaco, bellissimo “Mucchio selvaggio”.
Il povero Sam, nella vita, non ci sapeva fare: duro,
coriaceo e “rotto” come i suoi antieroi, visse in preda all’alcol, alla droga e
alla follia, appostandosi nei boschi col fucile spianato per affrontare le
invasioni aliene, convinto che la CIA avesse trasformato il suo cervello in una
bomba a orologeria, litigando coi produttori che gli massacravano i film e
riuscendo sempre a imprimere una nota genialmente personale nello stile (è
forse il re del montaggio, persino meglio di Welles e Kubrick) e nel disegno
dei caratteri.
I migliori, ancor più che a McQueen, li fece
interpretare da un’altra faccia giusta e uomo vero: James Coburn. Alto,
magro, brutto, sexy, tanto per bene nella vita quanto cattivo sullo schermo,
indimenticabile Sean Mallory in “Giù la testa” e meritato Oscar, in extremis,
per il ruolo del padre violento ed egoista di “Affliction”, è stato per
Peckinpah il protagonista di “Pat Garrett e Billy the Kid” e “La croce
di ferro”. Il primo, pur violento e disperato, non è il migliore dei film
del vecchio Sam (del resto, non abbiamo visto il director’s cut....), e Kris
Kristofferson, pur bravo, è piuttosto fuori ruolo nella parte del Kid. Invece
James Coburn è il miglior Pat Garrett che si sia mai visto, e probabilmente mai
si vedrà. Nostalgico ma disincantato, talmente onesto da potersi trasformare in
traditore, in lotta con la propria coscienza e con l’irresponsabile
testardaggine dell’amico. Il finale, quando, dopo aver ucciso Billy, si siede
sul dondolo ad aspettare l’alba, è da antologia, e sul volto impassibile di
Coburn si leggono tante emozioni: come acutamente osserva Morando Morandini, la
fine di un’amicizia corrisponde alla fine di un’epoca. “La croce di ferro”,
invece, è uno dei più validi film bellici. Fortemente ambiguo (è un film
antimilitarista che fa venir voglia di combattere), una grama volta dalla parte
dei tedeschi – qui visti come disillusi eroi votati alla sconfitta - , annovera
alcune sequenze da brivido, come quella, magistrale, delle allucinazioni in
ospedale o il finale tragico e beffardo in cui James Coburn non uccide
Maximilian Schell, ma lo costringe a “combattere come un autentico soldato
prussiano”. Il film vive dello scontro tra Schell, ufficiale frustrato il cui
anacronistico sogno (l’esercito tedesco sta capitolando) è di guadagnarsi la
croce di ferro, e Coburn, sottufficiale selvatico e ribelle, ma “soldato vero”,
abile nelle azioni e di grande spessore umano. Ama tanto i suoi uomini da combattere
per loro fino all’ultimo, da rischiare la vita per non tradire la memoria di un
amico morto. Un personaggio positivo che solo uno “sgherro” come Coburn poteva
interpretare così bene.
Un altro disperato outsider di Peckinpah per il
quale l’amicizia conta più della vita.