Voglio una vita come Steve Mcqueen

16/05/2008

“Se il mondo è dei vincitori, che ci stanno a fare i vinti?” “Qualcuno deve pur tenere i cavalli” (L’ultimo buscadero)

Quando Vasco Rossi inneggiava alla “Vita spericolata”, avrà avuto senz’altro in mente la biografia di Steve McQueen – la passione per le auto veloci e le donne, il passato da balordo e ferito senza famiglia sempre on the road o in galera – ma anche  i suoi ruoli di outsider e fuggiasco: I magnifici 7, La grande fuga, Bullit, Papillon. E quelli, grandi, che gli ha regalato Sam Peckinpah: il rapinatore dell’adrenalinico “Getaway!” e lo Junior Bonner di “L’ultimo buscadero”; il primo che consolida la sua fama di (anti)eroe cinico e sempre in movimento, il secondo duro e romantico ex-vincente, anacronistico cowboy da rodeo alle prese con un padre ingombrante – il volto ideale, quello di Steve, per questo film malinconico e crudele nel suo minimalismo disfattista (15 anni dopo sarebbe stato un ruolo perfetto per Mickey Rourke, che del tormentato McQueen è senz’altro il più diretto erede)

Del resto, Sam Peckinpah è tagliato per disegnare uomini stanchi ma fieri, perdenti che alla fine a loro modo vincono: si pensi alla bella coppia di vecchi amici del West (Randolph Scott e Joel McCrea ) nello straordinario “Sfida nell’Alta Sierra” (un gioiello di cattiveria e disillusione tutto da riscoprire), al James Caan di “Killer Elite”,  – killer vendicativo educato alle arti marziali antesignano della Thurman tarantiniana, al Dustin Hoffman – piccolo uomo tranquillo che si trasforma in un vendicatore sanguinario – dell’elettrizzante “Cane di paglia”, all’orrendo Warren Oates – killer del lisergico “Voglio la testa di Garcia”, e ai suoi gruppi di violenti disperati di “Sierra Charriba” e del mitico, pessimista, sgradevole, elegiaco, bellissimo “Mucchio selvaggio”.

Il povero Sam, nella vita, non ci sapeva fare: duro, coriaceo e “rotto” come i suoi antieroi, visse in preda all’alcol, alla droga e alla follia, appostandosi nei boschi col fucile spianato per affrontare le invasioni aliene, convinto che la CIA avesse trasformato il suo cervello in una bomba a orologeria, litigando coi produttori che gli massacravano i film e riuscendo sempre a imprimere una nota genialmente personale nello stile (è forse il re del montaggio, persino meglio di Welles e Kubrick) e nel disegno dei caratteri.

I migliori, ancor più che a McQueen, li fece interpretare da un’altra faccia giusta e uomo vero: James Coburn. Alto, magro, brutto, sexy, tanto per bene nella vita quanto cattivo sullo schermo, indimenticabile Sean Mallory in “Giù la testa” e meritato Oscar, in extremis, per il ruolo del padre violento ed egoista di “Affliction”, è stato per Peckinpah il protagonista di “Pat Garrett e Billy the Kid” e “La croce di ferro”. Il primo, pur violento e disperato, non è il migliore dei film del vecchio Sam (del resto, non abbiamo visto il director’s cut....), e Kris Kristofferson, pur bravo, è piuttosto fuori ruolo nella parte del Kid. Invece James Coburn è il miglior Pat Garrett che si sia mai visto, e probabilmente mai si vedrà. Nostalgico ma disincantato, talmente onesto da potersi trasformare in traditore, in lotta con la propria coscienza e con l’irresponsabile testardaggine dell’amico. Il finale, quando, dopo aver ucciso Billy, si siede sul dondolo ad aspettare l’alba, è da antologia, e sul volto impassibile di Coburn si leggono tante emozioni: come acutamente osserva Morando Morandini, la fine di un’amicizia corrisponde alla fine di un’epoca. “La croce di ferro”, invece, è uno dei più validi film bellici. Fortemente ambiguo (è un film antimilitarista che fa venir voglia di combattere), una grama volta dalla parte dei tedeschi – qui visti come disillusi eroi votati alla sconfitta - , annovera alcune sequenze da brivido, come quella, magistrale, delle allucinazioni in ospedale o il finale tragico e beffardo in cui James Coburn non uccide Maximilian Schell, ma lo costringe a “combattere come un autentico soldato prussiano”. Il film vive dello scontro tra Schell, ufficiale frustrato il cui anacronistico sogno (l’esercito tedesco sta capitolando) è di guadagnarsi la croce di ferro, e Coburn, sottufficiale selvatico e ribelle, ma “soldato vero”, abile nelle azioni e di grande spessore umano. Ama tanto i suoi uomini da combattere per loro fino all’ultimo, da rischiare la vita per non tradire la memoria di un amico morto. Un personaggio positivo che solo uno “sgherro” come Coburn poteva interpretare così bene.

Un altro disperato outsider di Peckinpah per il quale l’amicizia conta più della vita.

Elena Aguzzi