Dieci anni fa è scomparso Marlon Brando. Che strano. Credevamo, speravamo, che fosse immortale. E forse lo è, perché un Mito come lui non può svanire nel nulla. In fondo anche negli ultimi anni, da tempo obeso, depresso, pronto a buttarsi via, continuava a essere presente nei cuori e nella mente degli appassionati di cinema come il Più Bravo, il Mitico, il Bellissimo, il Ribelle. E il fatto che sembra ieri da quando non c'è più è il segno della sua forza.
Nato a Omaha il 3 aprile del ’24, infanzia e giovinezza turbolente, all’insegna di una madre alcolizzata ma sempre molto presente e amante del bello. Bud (questo il suo nomignolo) cresce con un carattere scontroso, curioso, insofferente alle regole, con lampi di aggressività e di dolcezza, vitalità e cupezza. A 19 anni lascia il Nebraska (che rievocherà autobiograficamente in un monologo di “Ultimo tango a Parigi”) per New York. Si mantiene agli studi di recitazione con lavoretti, e comincia a calcare i palcoscenici di Broadway con esiti incerti. La vita, e la storia della recitazione, cambiano nel ’47, quando Marlon incontra il suo pigmalione Elia Kazan, che lo vuole nel ruolo di Stanley Kowalsky in “Un tram che si chiama desiderio”, una piéce moderna, che sembra scritta apposta per lui (in effetti l’autore, Tennessee Williams, quando lo conobbe, decise di lasciargli carta bianca nel riscriversi i dialoghi). Come entra in scena il pubblico resta fulminato dal suo prepotente sex appeal: un sessappiglio che non lo lascerà mai e che farà perdere la testa a donne, uomini, mogli che verranno da lui maltrattate, spettatori di tutto il mondo.
Ma non è solo selvaggia bellezza: è un carisma e una capacità mimetica uniche, è il “metodo” di Stanislawsky che si fa carne e arte e che presto va stretto al teatro. Egli infatti “telegrafa” emozioni, ma è l’intimità con la cinepresa che può trasformare questa telegrafia in vera telepatia. Il cinema lo chiama, Marlon risponde.
Quando nel ’50 appare su una sedia a rotelle in “Uomini”, è come una frustata. Non si era mai visto tanto potenziale erotico e drammatico, “un simile concentrato – come scrisse Paola Malanga su un inserto di Ciak – di silenzi ed esplosioni, di introversione e animalità”. Tale concentrato si ripropone, più prepotente che mai, l’anno dopo, nella versione per lo schermo del “Tram” di Williams-Kazan: Marlon recita col volto, col corpo , con la splendida voce nasale. La sceneggiatura edulcora la storia per evitare la censura, la presenza di Brando incendia lo schermo facendo scattare il divieto ai minori.
È difficile definire in un solo aggettivo Marlon Brando, come attore: c’è la capacità di portare le emozioni attraverso il corpo, come in James Cagney, c’è l’indolenza sensuale di Robert Mitchum, e ci sono, di nuove, l’aggressività volgare, la fragilità quasi androgina, la sfrontatezza dell’uomo e la paura dell’adolescente. Su tutto, la capacità da camaleonte di far proprio il personaggio, in ogni sguardo, accento, sussulto (impareggiabile il suo modo di morire sullo schermo!). O forse un aggettivo c’è: geniale. Non per nulla è l’attore più “autore” dei propri personaggi, capace di imporsi persino sulla volontà di registi e produttori.
Mentre inanella successi e performances mozzafiato che lo catapultano nell’immaginario collettivo come Leggenda oltre che come interprete, come quelle del “Selvaggio” Johnny e del Terry Malloy di “Fronte del porto”, e sbalordisce mostrandosi a suo agio anche nei ruoli di Emiliano Zapata in “Viva Zapata” e Marc’Antonio in “Giulio Cesare”, si fa notare anche fuori dallo schermo per la sua vita spericolata, che lo fa amare e detestare dai gossipist di Hollywood, che lui affronta col suo tipico umorismo menefreghista. (immaginatevi lo scandalo dei perbenisti dell’epoca quando, solo per fare un piccolo esempio innocente, alla domanda “ Preferisce fare il bagno o la doccia” si sentivano rispondere “Nessuno dei due: sputo in aria e mi ci metto sotto”).
Purtroppo, giunto all’apice con l’Oscar per “Fronte del porto”, Marlon non riesce a resistere alle pressioni dello star-system e cede a commediole e film minori per quasi 20 anni, riuscendo però quasi sempre a cavarsela con grande professionismo e innato talento, tanto da riuscire a nobilitare anche polpettoni come “Gli ammutinati del Bounty”, e azzeccando addirittura un’interpretazione canterina, che si sarebbe detta fuori dalle sue corde, in “Bulli e pupe”, dove sfonda deliziosamente di simpatia. Brilla anche in “Pelle di serpente”, in un ruolo un po’ alla Paul Newman (che a quell’epoca passa per un suo imitatore di serie B), cimentandosi nella regia con “I due volti della vendetta” (pellicola discontinua ma intrigante impregnata di masochismo) e lasciandoci nel mezzo di quegli opachi decenni due interpretazioni semplicemente magistrali: quella dell’ufficiale nazista Christian Diestl ne “I giovani leoni” e quella, a nostro parere la migliore dopo quella che ci regala in “Ultimo tango”, del maggiore Weldon Penderton in “Riflessi in un occhio d’oro”: la sequenza in cui si liscia i capelli in ansiosa attesa in camera da letto del soldatino amato è storia del cinema.
E nella storia del cinema lascia un altro segno nel ‘72 col suo don Vito Corleone de “Il padrino”: se il film di Coppola diventa una pietra miliare non è solo per gli indubbi meriti del grande regista, ma anche per l’esibizione, perennemente in bilico tra gigionismo e “a sottrarre”, di Brando. Subito dopo Bertolucci ha il colpo di fortuna di averlo protagonista cinico e disilluso, romantico abbruttito, nostalgicamente erotico e straziante in “Ultimo tango a Parigi”, e l’attore trasforma il film in un capolavoro. Due altre zampate da leone sono il Jack Clayton di “Missouri” (ve la ricordate la serenata che fa alla sua cavalla?) e il grandioso generale Kurtz di “Apocalypse Now”, uno dei più bei film della storia, che senza i pochi minuti di Marlon avrebbe perso il 50% della sua forza.
E poi la vecchiaia, i debiti, i problemi di salute e di famiglia, nei quali le cronache rosa e nere sguazzano, e che gli fanno dichiarare, in occasione dei suoi 80 anni “La mia vita? Pochi momenti di gioia in mezzo a una grande tragedia”. Riesce ad essere – ma forse anche questo è una specie di record – addirittura imbarazzante in pellicole che vanno dal mediocre (“Don Juan De Marco”, “Il coraggioso”) al vergognoso (“L’isola del dottor Moreau”) o, nella migliore delle ipotesi, superflue. Il suo ultimo film è per lo meno dignitoso: “The score” dove, circondato da talenti dell’ultima generazione (Edward Norton) e di quella di mezzo (Robert De Niro), lui riesce, col minimo sforzo evidentemente possibile, a rubare a tutti la scena.
Perché lui è sempre il Più Bravo, il Mitico, il Bellissimo, il Ribelle.