Robert Ryan

03/05/2009

A chi interessa solo il cinema blockbuster e non conserva memoria di ciò che è precedente il 2000, il nome di Robert Ryan non dirà nulla, ma non occorre essere cinefili incalliti per aver presente il suo volto, essendo questo apparso in una settantina di film di vario genere ( noir, avventurosi , bellici, western....) nell'arco di oltre 35 anni.
Nato a Chicago nel 1909, ottenne la laurea anche grazie alla sua prestanza fisica, divenendo campione di boxe del college, categoria pesi massimi – un'esperienza che gli verrà utile anni dopo, quando in veste d'attore interpreterà il ruolo del boxeur, ma anche negli anni '30, quando si trovò ad affrontare la tipica giovinezza avventurosa degli americani dell'epoca, passando di lavoro in lavoro: marinaio, operaio, cowboy, autore di testi teatrali, attore, istruttore di reclute.
Il cinema lo notò all'inizio degli anni '40, quando la RKO lo mise sotto contratto per ruoli di duro, accanto alla star Robert Mitchum. Il suo primo ruolo da protagonista si ha nel noir “La donna della spiaggia”, ultima avventura cinematografica americana per il regista Jean Renoir, massacrato dalla censura dell'epoca proprio a causa del dirompente erotismo delle scene tra il giovane Ryan e Joan Bennet: tolte queste, rimase ben poco. Ma nello stesso '47 Ryan si fa notare dalla critica per un ruolo che gli rimarrà incollato addosso con la sua maschera di duro: il  militare antisemita (nel testo di Richard Brooks era omofobo, ma ancora una volta la censura si diede da fare) di “Odio implacabile”. Una maschera ingombrante per il povero Ryan: democratico, quacchero pacifista, attivista per i diritti dei neri in un'epoca in cui gli unici ad occuparsene erano i neri stessi, ferreo oppositore del maccartismo, ebbe sullo schermo quasi esclusivamente ruoli di macho fascista, sadico paranoico, delinquente o, nella migliore delle ipotesi, poliziotto violento e corrotto.  Una maschera ingombrante, ma anche la dimostrazione della sua capacità di finezza interpretativa, che con gli anni aggiunse alle rughe dei toni malinconici e riflessivi insoliti per un attore “di genere”.
Del resto il talento, solido e mai ingombrante, dell'attore è ben visibile già dalle prime pellicole importanti (Nella morsa, di Max Ophuls, Il ragazzo dai capelli verdi, di Joseph Losey, Atto di violenza, di Fred Zinnemann), tra cui spicca il toccante “Stasera ho vinto anch'io” (1949),di  Robert Wise, ancora oggi uno dei migliori film sulla boxe, in cui interpreta il ruolo di Stoker Thompson, un anziano pugile che si rifiuta di farsi comprare per un incontro in cui deve venir sconfitto. Riconferma il potere inquietante della sua presenza in “La gang”, di John Cromwell, del '51, anno in cui interpreta anche “Neve rossa”, film d'atmosfera in bilico tra il noir e il romantico, diretto da Nicholas Ray (uno dei registi con cui lavora di più), e una delle interpretazioni più apprezzate dell'attore, anche lui sul confine tra rude violenza e tenerezza, nel ruolo di Jim Wilson, poliziotto cittadino mandato per punizione in montagna, dove si redimerà attraverso l'amore per una ragazza cieca (Ida Lupino).

Nei seguenti dieci anni interpreta ben 25 film, dalle avventure western di serie B dirette da Budd Boetticher, ai noir “La confessione della signora Doyle” di Fritz Lang e “Inferno” di Roy Ward Baker, dal malinconicamente sentimentale “Addio signora Leslie”, al gangsteristico “Strategia di una rapina” di Wise. Tra tutti questi spiccano alcuni splendidi western: in “Lo sperone nudo” di Anthony Mann è un poderoso vilain, Ben Vandergroat, in un implacabile duello con il cacciatore di taglie James Stewart: chi è più “cattivo” dei due?; in “Giorno maledetto”,di John Sturges, insolito western ambientato negli anni cinquanta, è invece un cattivo tutto di un pezzo che deve nascondere un segreto al vecchio anchilosato Spencer Tracy, giunto a Black Rock per fare giustizia; ne “Gli implacabili”di Raoul Walsh, invece, è la vittima di un sequestro da parte dello scanzonato Clark Gable.
Ancora: un magnifico ruolo ne “La casa di bambù” di Sam Fuller (un poliziotto infiltrato nella malavita giapponese che finisce con l'essere attratto dall'uomo che deve catturare, Robert Stack) e quello di un padre, che la critica ha addirittura definito “di statura biblica”, in “Il piccolo campo” di Anthony Mann, dove è un poveraccio che si ostina a scavare la terra davanti a casa convinto che il nonno vi abbia seppellito un tesoro.
Ormai divenuto una garanzia, Ryan man mano viene reclutato per possenti kolossal all star, pur sempre però di qualità: “Il re dei re” di Ray (è Giovanni Battista), “Il giorno più lungo”, “La battaglia dei giganti”, “Quella sporca dozzina”. In mezzo, l'insolito “Billy Budd” di Peter Ustinov (dove però la scena gli viene per una volta rubata dal coprotagonista, un Terence Stamp, all'esordio, di sconvolgente bellezza) e una delle sue  interpretazioni “mature” più significative, quella nel bellissimo “I professionisti”. Il film di Brooks gli apre probabilmente le porte per un ruolo in qualche modo gemello in un altro western epocale, il possente ed elegiaco “Il mucchio selvaggio” di Peckinpah.
Altri film degli ultimi anni: “L'ora delle pistole”, “Lo sbarco di Anzio”, “Il capitan Nemo e la città sommersa”, “La corsa della lepre attraverso i campi”, ma lascia il segno soprattutto nell'interminabile “The Iceman Cometh”, nel ruolo tristissimo di Larry Slade, vedovo che non esce mai di casa, e nell'ultimo film da protagonista, “La terra si tinse di rosso”, girato poche settimane prima di morire di cancro, all'età di 63 anni. Nel frattempo era tornato a calcare le scene di Broadway e aveva visto spegnersi la moglie Jessica, madre dei suoi tre figli.
Un uomo vero e un professionista vero, che non ha mai fatto passerella sotto i riflettori ma ha saputo incidere sulla storia del cinema americano col suo volto particolare, il fisico atletico e quell'espressione in bilico tra spietato sadismo e dolce malinconia che lo hanno reso l'interprete perfetto di pellicole maschie e toccanti.

Elena Aguzzi