Titolo originale: Di Renjie zhi shendu longhuang
Regia: Tsui Hark
Cast: Mark Chao, Carina Lau, William Feng, Angelababy, Kim Beom, Kenny Lin, Chen Kun, Hu Dong, Sheng Chien, Lin Chao-hsu
Produzione: Hong Kong, Cina
Genere: Fantastico
Anno: 2013
Durata: 133
Voto: 6
Anno 665: la dinastia Tang, minacciata dal regno coreano di Buyeo, invia una flotta per difendere i confini dell’impero. Le navi vengono annientate da un mostro marino, e l’Imperatrice Wu Zetian ordina a Yuchi Zhenjin, a capo del Da Lisi, di risolvere il mistero entro dieci giorni o di pagare con la propria vita. Fortunatamente arriva a Luoyang il giovane Di Renjie che, avvalendosi della raccomandazione di un ministro, intende prendere servizio al Dipartimento di Giustizia.
Ritorna Di Renjie, integerrimo magistrato vissuto durante la dinastia Tang, che Van Gulik rese protagonista di una fortunata serie di romanzi, già portato sul grande schermo da Tsui Hark con “Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma” (2010). Prodotto dalla Film Workshop assieme agli Huayi Brothers, “Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon” è il secondo film del regista girato direttamente in 3D, e questo, insieme all’appeal del personaggio, lo ha portato a primeggiare sul mercato cinese, dove si è piazzato al primo posto nel box-office. L’evento non è però sinonimo di qualità sopraffina. Si tratta infatti di uno Tsui Hark in tono minore, che si accontenta di capitalizzare sul successo ottenuto dal film capostipite, dirigendo con la mano sinistra.
Orfano di Andy Lau, sostituito per motivi anagrafici con l’insipido taiwanese Mark Chao, Tsui Hark si avvia verso un’idea di cinema sempre più immateriale. Se in “Flying Swords of Dragon Gate” (2011) aveva dissolto in un maelström di pixel digitali la Dragon Inn Gate di King Hu fino al punto di non ritorno, qui persegue nella propria opera di distruzione. Il prequel di Detective Dee stila l’atto di morte per il cinema, o almeno per un certo tipo di cinema, cui viene somministrata l’estrema unzione a opera di una CGI totalizzante. Il corpo stesso dell’attore e la fisicità della messa in scena diventano fossili obsoleti, da obliterare al più presto con un effetto speciale dirompente, sancendone l’irrilevanza con forsennati tagli di montaggio. Quello che importa è la saturazione barocca dell’immagine, l’accumulo indiscriminato di segni, la superfetazione incontrollata di nuovi e più eccitanti stimoli visivi. Il fine del poeta sarà anche la meraviglia, ma che fare se la suddetta meraviglia cessa di esser tale? Tsui Hark si è trasformato in una sorta di Méliès del terzo millennio, un Méliès con un software e una workstation, che ha sostituito con la scaltrezza commerciale l’ingenua poesia di quest’ultimo. In questo accumulo di paccottiglia da trovarobe, il regista si dedica persino alla nobile arte del riciclaggio, mostrando dall’interno l’effetto dei colpi sui corpi dei contendenti, come in “Wu Xia” di Peter Chan, o scagliandoci in faccia lame roteanti, come in “The Guillotines” di Andrew Lau, e questo quando non è troppo occupato nel corteggiare un’estetica da videogame.
La sceneggiatura di Chang Chia-lu, a onor del vero, appare più coesa di quella del film precedente, almeno sul versante dell’investigazione pura. Quello del mostro marino, infatti, sembra essere l’ultimo dei problemi per la crudele Imperatrice Wu. Qualcuno complotta per avvelenare l’intera Corte, servendosi di un tè basato su una miscela segreta, prodotto ad uso e consumo della coppia imperiale. Come sempre toccherà a Di Renjie, insieme all’amico/nemico Yuchi Zhenjin, scoprire colpevoli e motivazioni prima dello scadere dell’ultimatum imposto dall’irascibile Imperatrice. Fin qui tutto bene, se non fosse che Chang e Tsui Hark pensano bene di complicarsi la vita inserendo una storia d’amore in stile la Bella e la Bestia tra Yin Ruiji, la cortigiana più famosa di Luoyang, e Yuan Zhen, il fornitore dell’esclusivissimo tè, trasformato in una creatura mostruosa metà uomo e metà rettile. Il tutto a opera dei Dondo, un popolo di pescatori dalle demenziali mire imperialistiche, che sverna in un’isoletta tra la Cina e il Giappone.
Se il primo film era sotto il segno del Fuoco, il secondo nasce sotto il segno dell’Acqua e del fluire dei liquidi, compresi quelli meno nobili che costituiscono un antidoto all’avvelenamento. Si suppone, però, che la motivazione principale sia quella di permettere al regista di scatenarsi con una buona mezz’ora di caccia al mostro marino che, contrariamente a quanto lascia presagire il titolo, non a nulla a che fare con i Draghi della mitologia cinese, talmente ben educati da essere ricevuti dall’Imperatore di Giada in persona. La creatura in questione sembra invece partorita dalla fantasia dello Stephen Chow di “Journey to the West: Conquering the Demons”, che però avrebbe certamente elaborato una millimetrica coreografia, che qui viene sopraffatta dagli effetti digitali, malgrado le qualità dell’ariostesco destriero di Di Renjie.
Discreti Mark Chao (Monga) nel ruolo di Di Renjie e William Feng (Painted Skin: The Resurrection) nella parte di Yuchi Zhenjin, mentre Angelababy e Kim Beom, gli sventurati amanti, sono al limite dell’insipienza. Interpretazione imperiale di Carina Lau, che torna nel ruolo di Wu Zetian, la quale con un aggrottar di sopracciglia fa scomparire tutti gli altri, mostri marini compresi.