
“Tu non mi avrai mai” Patricia Arquette in “Strade Perdute”
Partiamo subito in quarta (modus dicendi inventato da qualcuno che non capiva niente di motori) sentenziando che questo è un vero film per soli uomini. Non se la prenda il pubblico femminile, dal momento che il fatto non costituisce ne’ un pregio né un difetto: è così e basta, a nostro giudizio. Ma non si intenda, con riservato agli uomini, un film di virili amicizie e malinconiche quanto rassegnate filosofie compensative su come perdonare l’amico per avere in comune con te i gusti in fatto di donne ed anche la donna focalizzata da quei gusti, bensì una pellicola che un uomo possa comprendere e sentire più facilmente di una donna. Poiché tutto ci appartiene, tranne il sessismo, andiamo a giustificare questa scomoda affermazione con i fatti e le immagini, ma non prima di un’altra, brevissima premessa: se non capite tutto di Lynch, sappiate che nessuno, neppure il più fanatico, capisce tutto di Lynch. Non è un problema. Lynch parla per metafore, visioni, incubi, la sua dialettica è puramente emotiva e irrazionalmente, “psicoticamente” onirica, quindi lasciatevi trasportare dalla narrazione, anzi, cercate di non pensare ad alcuna narrazione che abbia precise regole, e arriverete ad un punto in cui tutto vi parrà chiaro. Perché il nostro mito fa così: confonde, illude, depista, e poi spiega in un tempo brevissimo, magari con una sola battuta come “Tu non mi avrai mai.”
Una frase terribile, che tutti noi cromosomi XY ci siamo sentiti dire o, almeno, abbiamo intuito, abbiamo provato in quella regione della consapevolezza che è dolore puro, una sequenza di parole seconda solo al celebre “Mai più” de “Il Corvo” di Edgar Allan Poe. “Tu non mi avrai mai” non è una semplice considerazione, è un abbandono senza speranze, un ripudiare e un escludere definitivo, rintocca come una campana e ti lascia senza nulla da aggiungere. Ci permettiamo di ritenere che, in quanto figli di donne e ad esse vincolati da un intrico di sentimenti tumultuosi, i maschi percepiscano una simile condanna non in modo più sofferente, ma più atavico sì. Dopotutto, ci sostengono i film e i libri in questa teoria: esistono le dark lady, e sono sempre gli uomini a cedere più facilmente di fronte ad un fascino sofisticato. Esiste il noir, che è un documentario del terrore maschile riproposto in varie edizioni. Esistono i duri, patetici tentativi di resistere ad una tentazione profonda, subito pronti a trattare a pesci in faccia tutte le brave ragazze che incontrano, salvo poi lasciarci le penne a causa di una femme fatale. “Strade Perdute” è un noir, un horror, un film di Lynch, un pulp, un mistery e molto altro ancora. E’ anche la storia di un sassofonista terrorizzato da alcune videocassette che gli vengono recapitate da ignoti e che lo ritraggono mentre dorme con la moglie Hellys, temuto e desiderato emblema di una femminilità inafferrabile. Vicenda di un uomo che è la vicenda di ogni uomo, e se, nella seconda metà del film, la narrazione crolla e si riedifica in una narrazione del tutto diversa, non è poi così strano. Ed è ovvio che la donna sia sempre la stessa, ma in un differente contesto. Ancora una volta la visione di Lynch è primigenia, e le sue allegoriche astrusità rendono solo in apparenza complessa la lettura di un vissuto che si esprime più come forza elementale che in forma di ragionamento: passioni contrastanti, gelosia, ira, desiderio oscuro di una bellezza che tende ad allontanarsi. Il protagonista è, tutto sommato, profondamente vittima dei propri istinti, sia che viva la prima delle sue forme o la seconda (e qui lasciamo il mistero…). Come Laura Palmer di Twin Peaks, Hellys è non tanto una donna quanto il simbolo di una disfatta, quella dell’individuo maschile, nel suo disperato tentativo di recupero della figura materna e nella solitudine alla quale è, per natura, già destinato.