I film di Luchino Visconti spesso sono tratti da materiale narrativo preesistente. Si va dalla versione calligrafica de Lo Straniero a quella libera di Senso; dalla storia seguita fedelmente, ma mutata nell’ambientazione, di Le notti bianche, a quella rispettata nell’ambiente e nell’atmosfera, ma mutata nella trama, di Rocco e i suoi fratelli; e anche quando la sceneggiatura è originale, le fonti letterarie sono comunque evidenti: si pensi a La caduta degli Dei, dove si parla della decadenza di una famiglia tedesca come nei Buddenbrook, il crescendo di tragedia è addirittura da dramma elisabettiano, e vi è incluso un episodio che segue fedelmente alcune pagine de I Demoni.
Ma quando si parla di cinema e letteratura, sono due le pellicole di Visconti che balzano subito alla mente, come esempio di realizzazione particolarmente ben riuscita: Il Gattopardo e Morte a Venezia.
La vicenda che porta alla pubblicazione de Il Gattopardo è degna lei stessa di un film viscontiano. Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa non è uno scrittore, ma un uomo coltissimo e raffinato, che ama la scienza e la letteratura. A sessant’anni scrive un romanzo, Il gattopardo, appunto, che alcuni editori poco lungimiranti rimandano indietro, finché nel ’58, un anno dopo la sua morte, il manoscritto, anonimo, giunge nelle mani di Giorgio Bassani, il quale si appassiona al libro, scopre chi è l’autore, conosce la di lui vedova e, infine, propone il testo a Feltrinelli. Il successo è immediato e poco dopo, nel ’63, Visconti realizza da quel romanzo un film memorabile, che porta il nome di Tomasi di Lampedusa nel regno degli immortali: oggi brani del libro sono riportati in tutte le antologie scolastiche, e con pieno merito. Quel che maggiormente colpisce del breve romanzo – che racconta le vicende di una nobile famiglia siciliana negli anni dell’annessione della Sicilia al Regno d’Italia – è la sua semplicità e scorrevolezza, che non vanno però mai a discapito dell’accurata e acuta ricostruzione storico- psicologica. E’ inoltre da sottolineare come la tragedia e persino l’orrore di certe scene riescano a fondersi con una sottilissima e quasi involontaria ironia che alleggerisce il dramma ( che nulla ha a che spartire col romanzo storico- famigliare romantico). Mai tedioso o pedante, Il gattopardo è un romanzo preciso, colto e gentile come il suo autore, che ha prestato al protagonista, il Principe di Salina, alcune proprie caratteristiche fisiche e caratteriali (l’amore per i cani e per l’astronomia, per esempio). Visconti sceglie la strada della trasposizione fedele : scarta solo un paio di episodi insignificanti e, soprattutto, lo mutila degli ultimi capitoli, la (bellissima, ma infilmabile) morte del principe e un malinconico, ma un po’ fuori tono, “vent’anni dopo”, mentre concentra la sua attenzione su tre capitoli: i garibaldini a Palermo; la famiglia in campagna, a Donnafugata, con l’incontro tra i giovani Tancredi ed Angelica e il plebiscito per l’annessione al Regno (una vera e propria lezione di storia che andrebbe proiettata in tutte le classi che studiano il Risorgimento); il ballo a Palermo, ambientato due anni dopo, nel 1862, dove l’estro registico di Visconti si scatena: un’ora di film per un’unica sequenza di immensa bellezza e grande significato. E qui si evidenzia la grande differenza tra libro e film: per quanto preciso, il romanzo è quasi un abbozzo; una volta che i dettagli vengono invece messi in scena e non semplicemente accennati, la storia prende tutto un altro respiro. Il film è lento, grandioso, solenne, anche se mantiene sempre una certa leggerezza che lo rende gradevole e mai noioso: è come se Visconti esplicitasse gli elementi decadenti del libro, secondo il proprio gusto.
Più letterariamente complessa, anche se cinematograficamente più lineare, è l’operazione esercitata da Visconti su La morte a Venezia di Thomas Mann, uno dei suoi autori- culto. Si può dire che i capitoli tre, quattro e cinque, quelli del soggiorno e della morte del professor Gustav von Ascenbach a Venezia, siano rispettati nel dettaglio in maniera quasi maniacale, con lo stesso effetto di lente d’ingrandimento che abbiamo appena visto ( è curioso notare come alcuni “grandi” romanzi concentrati sulle descrizioni esterne, una volta tradotti in film si rimpiccioliscano, come se al regista importasse solo la trama, e viceversa come alcuni racconti o romanzi brevi trovino la loro più piena espressione in pellicole di più di due ore), mentre i primi due capitoli, quelli che descrivono il carattere e la carriera di Aschenbach e il suo desiderio di partire, vengono trasformati in una serie di flash- back che, però, non riassumono i due capitoli del libro, ma l’intera opera di Mann, in particolare il romanzo Dottor Faustus. Infatti il cambiamento più clamoroso e ricco di conseguenze, anche estetiche, tra libro e film consiste nel fatto che nel primo Aschenbach è uno scrittore, mentre nel film, come in Dottor Faustus, è un musicista. La musica scandisce dunque i dubbi estetici di Aschenbach ( si può creare la bellezza?), che precisa il proprio carattere borghese e “quadrato” in discussioni su arte e vita in cui viene trascinato da un amico “tentatore”, che già prevede il suo fallimento, e che viene beneficiato di un breve, toccante monologo sul tempo che passa tratto da La Montagna Incantata. Appena accennata è invece la morte della figlia di Aschenbach, sempre ispirata al Faustus, ma qui svuotata di significato, se non quello di mostrarci un uomo desolato, oltre che sessualmente “normale”. E sempre a proposito di Faustus e di sessualità va ricordata la sequenza della casa di tolleranza, in cui l’integerrimo professore si “macchia” di sensualità. Da notare che la prostituta lo attira con la musica: infatti la musica è più sensuale della parola e l’aver fatto di Aschenbach un musicista serve a sottolineare un carattere erotico nell’amore dell’anziano artista verso l’adolescente Tadzio, che lo corteggia non del tutto inconsapevolmente, erotismo che non è presente nel libro, più aridamente intellettuale: magistrale è la scena in cui Aschenbach, guardando Tadzio che cammina sulla spiaggia, compone un brano musicale che, finalmente, non è musica accademica, ma vera arte ( e noi possiamo udire il comporsi della sinfonia a ritmo coi movimenti del fanciullo). E qui ecco l’importanza estetica della scelta viscontiana: le musiche del film sono scritte da Gustav Mahler ( in particolare l’adagetto della 5^ sinfonia), al quale lo straordinario Dirk Bogarde assomiglia fisicamente, e la scelta di tali, splendide musiche contribuisce alla bellezza del film. I libri, purtroppo, non hanno una colonna sonora….