13 Assassini

24/06/2011

di Takashi Miike
con: Koji Yakusho, Takayuki Yamada, Yusuke Iseya, Goro Inagaki, Masachika Ichimura, Mikijiro Hira, Hiroki Matsukata, Ikki Sawamura, Arata Furuta, Tsuyoshi Ihara, Masataka Kubota, Sousuke Takaoka

Per porre fine alle atrocità perpetrate da Naritsugu Matsudaira, fratellastro dello Shōgun, un alto ufficiale dello shogunato incarica il samurai Shinzaemon Shimada di organizzare discretamente il suo assassinio. Shinzaemon recluta un piccolo gruppo di samurai, apprestandosi a tendere un agguato a Naritsugu durante il suo viaggio di ritorno da Edo. Il villaggio di Ochiai si trasformerà in una trappola mortale, sede della cruenta battaglia che vedrà i 13 samurai di Shinzaemon battersi contro i 200 uomini di Naritsugu.
Remake dell’omonimo film di Eichi Kudo del 1963, “13 Assassini” si mantiene estremamente aderente all’originale, del quale mantiene intatta la struttura e, a partire dall’incipit, conserva alcune sequenze. Unico aggiornamento, la connotazione in senso psicopatologico del personaggio di Naritsugu le cui efferratezze, prima soltanto intuite, diventano manifeste. Se nel film del’63 la sua crudeltà era accessorio inevitabile dell’arroganza del potere, qui Miike lo trasforma in un vero e proprio sadico, che stupra, uccide e mutila per soddisfare le proprie pulsioni. Naritsugu è inebriato dalla guerra e dalla violenza e alla ricerca spasmodica della sofferenza, propria od altrui poco importa. Una piccola goccia di fiele nell’insistita classicità dell’opera, un personaggio deviante, infantile e sadomasochista, apparentabile a mille altri outsider rintracciabili nella filmografia del regista, dal Kakihara di “Ichi the Killer” al protagonista del recente “Detective Story”. Questa scelta ha un po’ il sapore dell’autocitazione, dato che con tutta evidenza l’intenzione del prolifico regista nipponico è quella di tornare alle radici del “jidaigeki” dell’epoca d’oro. Niente venature crepuscolari alla Yōji Yamada, toni nichilisti (il suo “Izo”) o postmoderni alla Sōgo Ishii. “13 Assassini” non intende sovvertire il genere ma omaggiarlo, riallacciandosi alla lezione di Akira Kurosawa con una classe e un dinamismo che pochi registi giapponesi contemporanei possono vantare. Probabilmente alcuni estimatori di Miike non vedranno di buon occhio questo ingresso ormai conclamato del regista nel cinema mainstream; per Sono Sion è diventato un “conformista”, ormai asservito alle strategie produttive dei grandi studi cinematografici. In realtà Miike ha sempre lavorato sulla quantità, alternando con estrema libertà espressiva opere personali ad altre più commerciali, dimostrando, quel che più importa, una maturazione stilistica che lo ha messo in grado di affrontare con risultati eccellenti qualsiasi tipo di progetto. Misurarsi senza preconcetti con un dramma storico di impianto tradizionale, è parte integrante di quella libertà.
Il film è ambientato nel 1844, verso la fine dell’epoca Tokugawa, in un momento storico in cui la casta dei samurai aveva scarsa ragione di esistere e sopravviveva in ristrettezze, spesse volte vendendosi la spada. Paradossalmente fu proprio durante questo lungo periodo di pace che vennero elaborati i principi del Bushidō, costruendo quella mitologia del samurai, fedele al proprio signore fino al punto di sacrificargli la propria vita, così essenziale nel “jidaigeki” classico. L’etica del guerriero è quella da cui sono condizionati Shinzaemon e Hanbei, vecchi amici che si ritrovano schierati su fronti opposti, di cui entrambi avvertono come un onere intollerabile i codici di comportamento, ai quali non possono sottrarsi. Sia Miike che Eichi Kudo non dissacrano i principi del Bushidō, ma ne sottolineano in modi diversi il suo essere un crudele retaggio dei tempi feudali. Varrà a questo proposito raffrontare i due finali, che esprimono il medesimo significato con modalità opposte. Il film del 1963 si concludeva con un superstite che, ridendo istericamente, vagava impazzito per una risaia, inquadrato in campo lungo: la disumanità del sistema feudale conduceva alla morte o alla follia. Miike, con umorismo tutto contemporaneo, conclude con la considerazione di un sopravvissuto, il quale sostiene che piuttosto che essere un samurai, meglio sarebbe “diventare un fuorilegge, fare l’amore con una donna e imbarcarsi per l’America”. Tale certezza si incarna cinematograficamente nell’ironico personaggio di Koyata, cacciatore nonché tredicesimo samurai, che evoca direttamente il Kikuchiyo interpretato da Toshiro Mifune ne “I sette samurai”.
Dopo una prima ora di attesa, seguono 45 minuti di “massacro totale”, come scrive la donna mutilata in una sequenza che piacerà agli estimatori di “Imprint” o “Audition”. Il ritmo compostamente riflessivo si fa ipercinetico, ma sempre nel segno di una misura quasi classicista, un equilibrio formale apparentemente semplice ma difficilissimo da raggiungere. Merito anche di un cast di alto livello, da Koji Yakusho (Shinzaemon), affezionato attore di Kyioshi Kurosawa, ai giovani Sousuke  Takaoka e Takayuki Yamada, direttamente dal dittico di “Crows Zero”, e di collaboratori di prim’ordine, come il musicista Koji Endo, che compone le colonne sonore di Miike fin dai tempi di “Full Metal Yakuza”, e il direttore della fotografia Nobuyasu Kita, per tacere degli splendidi costumi di Kazuhiro Sawataishi. Miike ci ha preso gusto e al Festival di Cannes di quest’anno ha presentato “Seppuku”, remake dell’omonimo film di Masaki Kobayashi, Premio Speciale della Giuria a Cannes ’63.

Voto: 7

Nicola Picchi