
Gil è uno sceneggiatore che sogna di scrivere un romanzo, Inez è la sua fidanzata. Prima di sposarsi i due vanno in viaggio a Parigi in compagnia dei genitori di lei. Mentre lei si appassiona alla città dei musei e dello shopping e inizia l’esplorazione in compagnia di una coppia di amici, lui si fa trascinare dalla sua fantasia e inizia a sognare, dapprima, e poi a rivivere il passato della città.
Partendo dalla nostalgia alla base di molte riflessioni metafilmiche di Woody Allen e tenendo sempre presente il rischio didascalico che le troppe citazioni possono ingenerare, ecco il nuovo film del regista statunitense prendere a prestito idee passate, come anche miti e glorie del tempo che fu, e imbastire con questi una trama esile e situazioni divertenti, certo, ma condite da battute meno fulminanti del solito.
Gil è uno sceneggiatore che incomincia a porsi il problema del significato del suo lavoro. Inez è la sua futura sposa che di domande non se ne fa poi così tante, e mentre suo padre, un reazionario amante dei Tea Party, guarda con sospetto al futuro genero sinistramente artistoide, lei ne approfitta per una scappatella con un pedantissimo quanto irritante amico. A Gil, rapito più dal passato che dalla città odierna, non resta che passeggiare e perdersi tra le strade parigine.
Allo scadere della mezzanotte, moderna Cenerentola, invece di perdere la scarpetta egli smarrisce il senno e si ritrova a una festa dove Zelda gli presenta il suo Scott.
Fitzgerald dal canto suo mette in guardia l’ardimentoso Gil dal rischio di mostrargli il suo romanzo incompleto, dal momento che se fosse cattivo egli lo odierebbe, come odia tutta la cattiva letteratura, e se fosse invece un buon lavoro dovrebbe per forza invidiarlo. Quindi cosa resta di meglio da fare che non sottoporlo al giudizio di Gertrude Stein?
A questo punto si consiglia l’astensione dalla visione a tutti quelli che non amano il citazionismo fine a se stesso, dal momento che l’intero film è costellato da richiami al glorioso passato artistico di inizio secolo e dalla carrellata di personaggi più surrealista dell’intera carriera di Allen.
Il messaggio metafilmico è più che mai una scusa per inanellare gag, neanche tanto geniali, e infilare qua e là qualche frecciata al presente guerrigliero e poco umanista dell’America attuale.
Quindi mentre Hemingway si interroga sulla morte, cosa che può pure esser stata possibile, ma forse non in presenza di Gertrude Stein, Gil ne approfitta per dare suggerimenti a un Bunuel in crisi creativa e passargli la trama di una delle opere più famose che il regista abbia mai realizzato. Certo una volta presa la mano, il povero Gil decide che non è poi così male vivere la notte ciò che ormai non è più pago di sognare di giorno, e quindi molla gli ormeggi e si innamora di Adriana, musa di Picasso e di Modigliani, accompagnandola alla soglia dell’epoca sognata da lei: La Belle Epoque. Si perché il rischio reale di considerare il passato sempre migliore del presente è che ci si possa perdere nei nostalgici riferimenti, e non trovare mai più la via del ritorno. Il surrealismo diviene così schermo bianco su cui proiettare le più folli derive mentali, e scoprire di colpo che Dalì e Man Ray potevano sedere con Bunuel e immaginare insieme, partendo dallo stesso stimolo, cose completamente differenti.
Un Owen Wilson sottotono è Gil, mentre la sua infedele compagna è un’isterica Rachel McAdams. Meglio riusciti sono senz’altro i piccoli camei d’epoca: una sensazionale Kathy Bates è Gertrude Stein, proprio come ce la potremmo immaginare, e Marion Cotillard la fascinosa art groupie Adriana. Hemingway è un intenso Corey Stoll, mentre Adrien Brody è un Dalì parecchio sopra le righe.
Si teme moltissimo per il doppiaggio che potrebbe alterare il perfetto calderone linguistico dato dalla coesistenza nello stesso gruppo di spagnoli, americani e francesi, tutti che parlano la loro lingua e che si comprendono perfettamente.
Il tutto è filmato magnificamente, in particolare le ricostruzioni d’epoca e le scene di una Parigi notturna senza tempo, come a voler sottolineare la preferenza del regista in fatto di epoche storiche, ma quel che lascia leggermente disorientati è la sensazione di esser di fronte a una fotografia antica, bellissima certo, ma un po’sfocata. Il gioco citazionista dopo un po’ stanca, e quel che risalta, oltre i i camei riusciti e non, è la volontà di infilare quante più cose belle possibili in un solo momento, purtroppo ormai passato da tempo.
Se l’intento è quello di mettere in guardia contro i rischi onanistici di una nostalgia inguaribile, non può dirsi riuscito del tutto, dal momento che la parte più vitale del film è proprio quella onirica, e al suo confronto il presente non avrà mai nessuna possibilità di appeal, neanche in presenza della Première Dame a fare da guida. Ma se invece il messaggio fosse proprio quello della vitalità di un desiderio di ritorno al passato che addirittura ha il potere di influenzare la realtà presente, allora bisognerebbe chiedersi se non è arrivato il momento, anche per Allen, di accettare il presente per quel che è, e lasciare il passato ai musei.
Voto: 6
Anna Maria Pelella

Sull’onda della massima che chiudeva Ombre e Nebbia “Tutti noi abbiamo bisogno delle nostre illusioni” e che ha segnato gran parte dei suoi film, Woody Allen regala una fiaba romantica che segue il filone magico e si riannoda in molti aspetti a “La Rosa Purpurea del Cairo”. Il regalo giunge assai gradito, anche perché sembrava ormai che il genio si fosse esaurito e che, nel rimescolare coppie in crisi esistenziale e sentimentale, il regista non avesse più nulla da aggiungere. Anche qui si parla di una coppia in crisi, ma trasferendo il racconto in un’aura incantata, dove ogni riflessione è filtrata in un clima tanto surreale quanto delizioso.
Il passato idealizzato dal protagonista e in cui piomba allo scoccare della mezzanotte per unirsi ogni volta ai vortici di una “festa mobile”, dove mostra il proprio libro a Gertrude Stein, si innamora della musa di Picasso e siede ai tavoli della Brasserie Lipp con Dalì e Buñuel, gli indica l’insoddisfazione di un presente prosaico la cui alternativa è il rifugio nella felicità incantata di un mondo perduto, forse felice e incantato solo perché perduto. E questo voltarsi a ritroso verso un passato sempre più remoto rimanda anche al capolavoro di René Clair “Le Belle della Notte”. Breve metafora che cede il passo ad una leggerezza che avvolge l’intero film, il quale spazia tra due livelli comici: una realtà che ironizza sulla volgarità imperante di pseudo intellettuali e le incursioni notturne nella Parigi degli Anni Venti che fanno deliziosamente sorridere sulle intrusioni dei suoi protagonisti nella narrazione, in un continuo gioco di citazioni letterarie, e anche se non vi sono battute folgoranti è dall’estrosa situazione cardine del film che nasce tutta la sua divertente piacevolezza.
Restava il dubbio su come Woody Allen sarebbe riuscito a concludere una storia così sospesa, ma ancora una volta non si smentisce e la chiude con la stessa grazia, trovando un degno finale per chi cerca l’amore nella nostalgia. Il tutto avvolto in una Parigi da sogno, romantica fino all’indicibile, sfumata dai colori tenui del passato, avvolta dalle musiche di Cole Porter, filtrata dagli occhi di chi, come il protagonista, vede il passato anche nell’oggi, inguaribile disadattato forse, ma vivo di speranza.
Voto: 7,5
Gabriella Aguzzi