Un film che si apre sulle note di “Two of Us” dei Beatles con l’immagine di un ragazzo stesa a terra, mentre col gesso sta contornando la propria sagoma sull’asfalto, e lo segue allontanarsi dal grigiore di Portland per infiltrarsi a funerali di estranei e giocare a battaglia navale col fantasma di un kamikaze giapponese, fa immediatamente scoccare la scintilla. Gus Van Sant, infatti, non tradisce mai. E se per una volta si è concesso, sempre con stile, alle grandi produzioni (Milk), torna con la sua vena più autentica e sincera e con l’estro che lo contraddistingue all’adolescenza sofferente dei suoi film più belli (Paranoid Park, Belli e Dannati) per regalarci un gioiello di poesia che si pone tra le opere più riuscite e struggenti di tutta la stagione cinematografica.
Regista che da sempre stilisticamente si distingue per picchi d’originalità pur nell’intensità del mélo, si addentra con commovente lievità nell’universo di vetro di giovani toccati dalla morte, nel suo mistero e nell’esile fugacità delle cose, per raccontare una storia d’amore che ha il triste splendore di una fiaba e alla quale resta l’eco dolce dei ricordi. Lui, Enoch, sopravvissuto all’incidente che ha ucciso i suoi genitori, vive a contatto con l’ombra della morte che suo malgrado l’ha restituito al mondo, avvicinandosi di continuo per respirarne il sentore, e il suo miglior amico è un fantasma giapponese caduto nel cielo della Seconda Guerra Mondiale. Lei, Annabel, malata di cancro alla quale resta un grappolo di giorni di vita da godere fino all’ultimo istante, innamorata degli studi di Darwin, con la vitalità che ancora l’accende riuscirà a ridargli vita, proprio nel suo essere vicina alla morte. Una storia d’amore emozionante che sfugge ad ogni retorica (vi prego, dimenticatevi Love Story!), che ha picchiate nel cuore del melodramma e subito ne riemerge con guizzi originali, basti pensare alla scena in cui Annabel inscena la propria morte come una rappresentazione teatrale e l’apparente commozione del loro finto addio si tramuta in litigio. Perché il film di Van Sant è assai di più di una storia d’amore minacciata da una morte prematura, è un interrogarsi senza risposta sulla brevità delle cose, su un destino di fine, sull’irruzione dei misteri della morte in vite ancora troppo giovani e fragili ma forse per questo più combattive, sulla forza del gioco e del sorriso.
Ma la vera magia sta nel personaggio di Hiroshi – amico immaginario, spirito guida, alter ego o fantasma protettore – anch’egli con la sua dolorosa storia di un amore perduto, lirico nell’amarezza impotente di non fare in tempo, ombra di un aldilà ignoto, che accompagna col monito di afferrare l’attimo. Intensi gli attori, che oscillano tra una sognante vitalità e una rabbia vulnerabile: la splendida Mia Wasikowska, contemporaneamente sugli schermi con Jane Eyre, e Henry Hopper, meravigliosamente fragile, il cui sorriso finale sigla un film difficile da dimenticare.
Voto: 8
Gabriella Aguzzi