This must be the place

14/10/2011

di Paolo Sorrentino
con: Sean Penn, Frances McDormand, Judd Hirsch, Eve Hewson, Kerry Condon, Harry Dean Stanton, David Byrne

Essere inediti e semplici. È quello che Sorrentino vorrebbe fare coi propri film. La buona notizia, per lui e per il pubblico, è che spesso ci riesce.
Qui affronta un tema grande come una roccia – la memoria e il nazismo – e ne cava un'opera che, se fosse un romanzo, si potrebbe definire “minimalista”.
Un'ex rockstar, Cheyenne,  in volontario esilio a Dublino (scopriremo che non vuole più suonare da quando due ragazzi sono morti a causa delle sue canzoni dark), spende le proprie giornate girando a vuoto. È un po' un alieno, una sorta di Peter Pan, e continuerebbe così all'infinito se un giorno il padre, ebreo newyorkese col quale ha interrotto ogni rapporto da 30 anni, non morisse. Al suo funerale, scopre che il padre aveva speso la vita a inseguire il proprio aguzzino ad Auschwitz, e decide di completarne l'opera. Intraprende così un viaggio on the road nell'America più provinciale e sconosciuta. Quando la moglie gli chiede “Sei alla ricerca di te stesso?” risponde candidamente “Sono negli Stati Uniti, non in India”: ma inevitabilmente quel viaggio lo porterà a scoprire le proprie radici e a maturare.
Piacevolmente scandito dalle musiche di David Byrne (in alcuni casi cantano i Talking Heads, in altri sono musiche originali suonate dagli immaginari [?] “Pieces of Shit”), il film procede a quadretti, in stile Jim Jarmush, un po' stralunati, un po' divertenti, un po' amari. Conosciamo personaggi assurdi (la moglie solidale e materna, il cacciatore di denti, l'uomo d'affari che cede la propria vettura a uno sconosciuto, la professoressa che cerca di dare ordine alla propria vita e alleva un'oca in una casa tutta ninnoli, il bambino che ha paura dell'acqua e che è protagonista di uno degli episodietti più divertenti – l'esecuzione di “This must be the place” - , l'inventore dei trolley ), ammiriamo i paesaggi e ci affezioniamo a un protagonista fuori da ogni convenzione.
Stona, però, un certo tono didascalico. Il suo confronto con David Byrne è pleonastico (abbiamo capito che Cheyenne è un fallito), il lungo monologo del nazista cambia ritmo al film (bastava l'accenno al suo rapporto col padre, sarebbe stato più toccante e stringato), e soprattutto il finale si fa troppo esplicativo, come il criticato architetto che scrive “cusine” sulla parete della cucina: si fosse chiuso con la breve sequenza in cui Cheyenne accende una sigaretta, sarebbe stato perfetto.
Pur non perfetto rischia comunque d'essere il miglior film italiano della stagione, proprio perché si scosta dal cinema italiano che si contempla sempre l'ombelico convinto che interessi anche gli altri: Sorrentino cerca invece una storia e un modo di narrarla che siano universali, e arriva con innegabile piacevolezza appunto a tutti.
Senza Sean Penn il film non si sarebbe potuto fare. Look alla Robert Smith (anche se assomiglia tantissimo a Bono, fateci caso), passo rigido da vecchio, voce in falsetto e spezzata (il doppiaggio italiano cerca di ricalcarla, ma i risultati sono abbastanza disastrosi), aria imperturbabile alla Takeshi Kitano, veste Cheyenne come un guanto e regge la pellicola sulla proprie spalle, ma anche tutti i comprimari hanno il volto giusto (menzione d'onore a Harry Dean Stanton) e Frances Mac Dormand è, come sempre, adorabile.

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Voto: 7

Elena Aguzzi