The Way Back

07/07/2012

di Peter Weir
con: J. Sturgess, E. Harris, C. Farrell, S. Ronan, G. Skarsgard, D. Bucur, A. Potocean, M. Strong

Ispirato a una storia vera, o meglio liberamente tratto da un libro che è la versione romanzata di una situazione vera, l'ultimo film di Peter Weir racconta di un gruppetto di prigionieri che, negli anni '40, fuggono da un gulag sovietico e attraversano la Siberia, la Mongolia, il deserto di Gobi, l'Himalaya e giungono (alcuni di essi...) fino all'India Britannica.
Detto così, Dio ci scampi, è l'ennesimo film carcerario che, dopo aver raccontato per un po' le brutture dei campi di lavoro e averci presentato un ventaglio di tipi umani, ci racconta le peripezie della lunga fuga (è il genere “escape movie” , che si distingue dal “jail movie” perché quello racconta solo la vita in carcere e tutti i piani per fuggire, poi la fuga in se stessa è solo il finale). Il punto è che anche un capolavoro come  “La grande illusione” fa parte di questo stesso genere: non importa il soggetto, ma come lo si racconta. “The way back” è ben lungi da quei livelli, ma è qualcosa di più di un film d'avventura. Il qualcosa di più non sta nell'ottimo cast (tutti perfetti nei loro ruoli), nella bella fotografia o nell'attenta ricostruzione d'epoca e nemmeno nell'essere uno dei pochi film che denunciano la follia dei gulag. Il qualcosa in più sta nel regista e nel suo interesse per i rapporti umani. L'avventura è uno sfondo, come può essere uno sfondo una nave da guerra o un college; ciò che conta sono le relazioni  che si vengono a creare quando un gruppo di persone si ritrova a vivere in una situazione critica e ristretta. Da “Picnic ad Hanging Rock”a “Witness”, da “Mosquito Coast” a “L'attimo fuggente”, da “The Truman Show” a “Master and Commander”, Weir ci pone di fronte a qualcuno che finisce col conoscere se stesso grazie all'interazione forzata con altri, al doversi fidare di loro, cambiare rapporti di forza e convinzioni personali. “The way back” in questo senso non è film di fuga ma di viaggio, uno spostamento del corpo che corrisponde a uno spostamento dell'anima, alla fine del quale  si impara a capire l'altro e se stessi e ad affrontare i propri fantasmi. Lo spettatore apprende lentamente, come i personaggi, a conoscere chi gli sta davanti (all'inizio sono dei volti appena distinguibili, alla fine ognuno assume un carattere e una storia ben precisi) anche grazie a un felice espediente narrativo: a metà storia si aggiunge un altro fuggiasco, una misteriosa ragazza polacca (anche di lei conosceremo la verità solo in seguito, all'inizio quasi diffidiamo, immedesimandoci nei protagonisti), e questo elemento esterno cambia forzatamente le dinamiche del gruppo e amplia la conoscenza che hanno gli uni degli altri.  Basta sospendere l'incredulità sulla trama e accodarsi al viaggio e il film darà piacere ed emozione. Come sempre accade con Weir.

Voto: 7

Elena Aguzzi