
Anno 2077. Scenario post-apocalittico: la Terra è sopravvissuta a una guerra contro gli alieni venuti dallo spazio, gli Scavenger, che prima di sbarcare sul pianeta azzurro hanno distrutto la Luna, provocando una serie di terremoti e tsunami; i terrestri hanno vinto, ricorrendo alle testate nucleari, ma a costo di vedere il proprio mondo ridotto a un cumulo di macerie.
Jack (Tom Cruise) e Victoria (Andrea Riseborough), apparentemente gli unici umani rimasti ancora sulla Terra, sono incaricati della supervisione e manutenzione dei droni, che a loro volta si occupano della protezione delle idrotrivelle, imponenti congegni in grado di trasformare in energia nucleare l’acqua degli oceani. Mancano due settimane al loro rientro al Tet, la mastodontica astronave orbitante intorno alla Terra che, una volta completato il lavoro, li condurrà insieme agli altri terrestri sopravvissuti su Titano, la luna più grande di Saturno, per iniziare lì una nuova vita.
Nonostante la cancellazione della memoria avvenuta cinque anni prima, al fine di proteggere la missione stessa, nei sogni di Jack serpeggia il ricordo dell’anteguerra, e di una ragazza che lo fissa da lontano in mezzo alla folla di una città. Un giorno, sul pianeta atterra una navicella spaziale contenente cinque astronauti in sonno Delta. Uno di essi, l’unico a sopravvivere all’attacco dei droni grazie alla protezione di Jack, è proprio Julia (Olga Kurylenko), la donna che tormenta i sogni dell’uomo. A partire da quel momento...
Per un novizio totalmente a digiuno che volesse essere iniziato alla fantascienza, “Oblivion” rappresenterebbe un ottimo punto di partenza contemporaneo. I topoi e i cliché di questo genere dalle fortune più cinematografiche che letterarie si sprecano: l’invasione della Terra da parte degli alieni, il ricorso all’energia nucleare con il conseguente scenario post-apocalittico, la sopravvivenza di pochi destinati a migrare su un nuovo corpo celeste, il sonno criogenico, il rapporto ambivalente tra uomo e macchine, la scoperta di un gruppo di ribelli che vivono nell’ombra e non sono ciò che sembrano, l’importanza dei sogni e della memoria per la definizione della propria identità, il tema del “doppio”… Manca praticamente soltanto il viaggio nel tempo. Tra le tante opere che possono venire in mente c’è “Solaris” (prima il libro di Stanislaw Lem, poi i tre film del 1968, 1972 e 2002, tratti dall’opera letteraria), e chi l’ha visto o letto capirà perché. Le lenti a specchio di Malcolm/Morgan Freeman, che riflettono l’immagine dell’interlocutore, sono le stesse del Morpheus di Laurence Fishburne in “Matrix”. Ci sarebbero mille altri esempi. A un livello ancora più basilare, si potrebbe osservare che un’analisi particolareggiata della sceneggiatura porterebbe probabilmente alla luce una struttura classica informata dalle funzioni della fiaba di Propp (protagonista, antagonista, aiutante, oggetto magico...). Ma questo è il caso di gran parte dei prodotti hollywoodiani standard.
Sul piano tecnico “Oblivion” non ha quasi nulla da eccepire: la fotografia è sublime, il montaggio trasparente e non fastidioso, le scenografie imponenti e suggestive, la regia funzionale, la sceneggiatura quasi scevra da falle e complessa ma non complicata, con un paio di colpi di scena spiazzanti. Il formato panoramico viene ben sfruttato nelle inquadrature in campo lungo, che valorizzano i paesaggi desertici terrestri, attraversati dalla moto di Jack/Cruise (ci ricordiamo di “Mission: Impossible 2”?), evocando l’estetica di una pellicola western. I videogamer non potranno non apprezzare la sequenza di inseguimento in volo nel canyon, ripresa dalla soggettiva di Jack, con tanto di mirino e laserate. Il grigio/bianco e i toni lattiginosi, quasi plasticosi, del sopra-le-nuvole vengono logicamente contrapposti a quelli spesso scuri e cupi della superficie terrestre. Solo le musiche di Anthony Gonzalez, M.8.3 e Joseph Trapanese, pur ben bilanciate tra arrangiamenti elettronici e orchestrali, risultano troppo pompose e pompate, troppo invasive, chiamate a ogni piè sospinto a rimarcare inutilmente i passaggi (soprattutto emotivi e sentimentali) della storia. La barbetta ispida di Cruise (cinquant’anni tondi tondi e non li dimostra) farà probabilmente la gioia delle sue fan, mentre la frangetta alla Audrey Hepburn e le labbra carnose alla Angelina Jolie di Julia/ Olga Kurylenko coabitano in un viso quasi acqua e sapone assolutamente affascinante.
La debolezza del film di Kosinski, insomma, non è nella tecnica (cit. Morpheus). Essa risiede nella quasi totale mancanza di elementi davvero innovativi per il genere sf, un limite che apparirà immediatamente evidente a chi di fantascienza ne abbia masticata anche solo un po’. “Oblivion” punta sul sicuro, non rischia (e anche questa è una caratteristica, come tutti sanno, di gran parte dei prodotti hollwoodiani standard). Ma ad infastidire e deludere è soprattutto il finale, che, pur di salvare capra e cavoli, liquida la questione fondamentale dell’identità e del doppio senza porre troppi interrogativi alla coscienza dello spettatore. E vissero tutti felici e contenti.
Curiosità: nel 1994 uscì un film intitolato anch’esso “Oblivion” (http://www.youtube.com/watch?v=5buqVnYiswA), diretto da Sam Irvin, un anomalo e piacevole western-sf, in anticipo di cinque anni su “Wild, Wild West”. E sempre in quell’anno vide la luce l’omonima canzone “Oblivion” (http://www.youtube.com/watch?v=5RIlRhXXQjg) dei rocker britannici Terrorvision, contenuta nel godibilissimo album “How to Make Friends and Influence People”.
Voto: 6,5
Giulio Brillarelli