
Mike Banning (Gerard Butler) è il capo del servizio di sicurezza del Presidente degli Stati Uniti d’America (Aaron Eckhart). A Natale, durante una tempesta di neve a Camp David, un tragico incidente stradale provoca la morte della First Lady. Banning viene congedato. Diciotto mesi più tardi Mike vive una vita tranquilla: lavora al Dipartimento del Tesoro ed è felicemente sposato, ma non passa giorno senza che desideri tornare al suo vecchio incarico. L’occasione perfetta gli si presenta quando un gruppo di terroristi nordcoreani assalta la Casa Bianca e prende in ostaggio il Presidente e il suo entourage, rifugiandosi nel bunker sotterraneo. Spietato quanto il suo avversario Kang (Rick Yune), Mike si trasforma in una macchina da guerra, solo contro tutti, deciso a liberare il Presidente senza cedere ai ricatti dei suoi nemici. Sarà una strage.
Ci si sarebbe aspettato qualcosa di più dal regista di “Training Day” e “Shooter”. La sceneggiatura di Creighton Rothenberger e Katrin Benedikt di certo non ha aiutato Antoine Fuqua a confezionare un film anche solo discreto: scialbo (sebbene non sciatto) e scontato, il copione di questi due esordienti offre fin troppo facilmente il fianco a una critica elementare: “di film come questi se ne sono già visti cinquecentomila”. Non serve essere dei cinefili, né tantomeno dei critici, per accorgersene; bastano i commenti degli spettatori in sala tra primo e secondo tempo. I colpi di scena sono pochi e deboli, e vengono subito ricondotti alla incrollabile sicurezza e linearità della trama. Sia concesso, la “prematura” uscita di scena di Connor, il figlio del Presidente (Finley Jacobsen), è passabilmente originale. Ma le pecche sono tante: dialoghi senza un minimo di brio, di inventiva (i “cazzo”, usati ora come interiezione, ora come aggettivo rafforzativo, si vendono come il pane, con una banalità ben lontana dai geniali turpiloqui tarantiniani de “Le iene”, “Pulp Fiction” e “Jackie Brown”), schermaglie verbali piatte… L’apparato lessicale può suscitare qualche entusiasmo solo negli appassionati di gerghi spionistici-militari: “arrivano i regali di Natale”, “ho trovato il candelotto”, “squadra Bravo”, “squadra Tigre”, “formazione Charlie”, “codice Cerbero attivato”…
La colonna sonora, manco a dirlo, è troppo enfatica e patriottica, scontatissima. Le raffiche di tamburo militare si sprecano. Perché ciò? Perché è il film in sé a essere troppo patriottico: il proverbiale “Dio benedica gli Stati Uniti d'America” è il lasciapassare televisivo del Presidente o di chi ne fa le veci. Potevano mancare, ad esempio, le inquadrature della bandiera a stelle e strisce? Prima sforacchiata dai proiettili, quindi ammainata e gettata via, infine re-issata, l’Old Glory emblematizza la parabola narrativa come già ha fatto in centinaia di altri film. La Casa Bianca semidistrutta è un altro “totem” filmico (ci ricordiamo “Independence Day”?). E l’abbattimento parziale dell’obelisco di Washington D.C. non può non rievocare i fantasmi dell’undici settembre. Gli effetti speciali sono non eccezionali, ma decenti. Sembrano finte, più laserate che smitragliate, le raffiche di fuoco aeree e terrestri.
Il fatto è che in film di questo genere non c’è un briciolo di ironia: molto meglio, rimanendo sui binari dell’ “uno contro tutti”, il caro vecchio Bruce Willis di “Trappola di cristallo”, il John McClane che agisce e parla da cowboy (“Yippie ki-yay, figlio di puttana”), l’uomo giusto nel posto sbagliato e al momento sbagliato. Effettivamente Mike Banning, per molti versi, gli assomiglia; ma il limite sta nel suo essere una mera macchina omicida, senza alcuna esitazione, senza alcun dubbio. Che noia. Un protagonista piatto, che non va incontro praticamente ad alcuna evoluzione psicologica. Certo, la sua implacabile crudeltà, senza traccia alcuna di rimorso, colpisce. Ma il fatto stesso che non venga messa in dubbio è un’ulteriore conferma del (voluto? non credo) semplicismo della sceneggiatura.
Si direbbe che la fortuna del film sia quella di essere uscito in concomitanza con l’acuirsi della crisi America - Corea del Nord. Sarà stato un caso? Ci piacerebbe capire come sia stata recepita questa pellicola a Pyongyang, ma la Rete non sembra offrire notizie interessanti al riguardo. Forse il film non ci è proprio arrivato, nella penisola coreana. E magari è meglio così. Sta di fatto che “Attacco al potere”, costato 70 milioni di dollari, finora ne ha incassati “soltanto” 89 (c’è chi è messo molto peggio: “Jimmy Bobo - Bullet to the Head”, costato 55, ne ha resi appena 14).
Perché, dunque, andare a vedere “Attacco al potere”? Perché anche i cattivi hanno le proprie ragioni? Forse. Ma i cattivi, persino nei film, hanno SEMPRE le proprie ragioni. Per vedere Morgan Freeman (Vice-Vice) Presidente degli USA, allora? Magari sì. Peccato per quella brutta cravatta verde a pois. Perché è uno dei pochi film ad avere il coraggio di mostrare esplicitamente il pestaggio di un’esponente del gentil sesso, con tanto di sangue? Perché no: solo pochi come Tarantino se lo sarebbero potuti permettere. Per i combattimenti di kung fu? Ce li abbiamo. Duelli all’arma bianca? Ce li abbiamo. Sparatorie di massa? Ce le abbiamo. Esplosivo C4? Ce l’abbiamo. Pentagono, CIA, esercito, SEALS, bazooka, mitragliatrici? Ce li abbiamo. Ma è tutto qui? Un po’ pochino.
Dubbi amletici: ma perché i passamontagna a certi terroristi sì e a certi no? Avevano freddo? Eppure il film è ambientato in estate. E perché usare nelle didascalie il formato 12 ore AM/PM anziché quello 24 ore, visto che le stesse sono state tradotte in italiano?
Graziosa Radha Mitchell (“Man on Fire - Il fuoco della vendetta”, “Silent Hill”), che interpreta la moglie di Mike Banning: assomiglia a Nicole Kidman (australiane ambedue, guarda caso).
Voto: 6
Giulio Brillarelli