La quinta stagione

19/06/2013

di Peter Brosens, Jessica Woodworth
con: Aurélia Poirier, Django Schrevens

Vincitore del premio Arca Cinema Giovani alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2012, arriva nelle sale il 27 giugno “La Quinta Stagione”, una tragedia in cui la protagonista, che ha la colpa, che ha commesso il delitto, è colei che più potrebbe spaventare il genere umano: la Natura. Concepito come terzo capitolo di una trilogia,dopo Khadak e Altipiano, film realizzati sempre dalla coppia di registi, il belga Peter Brosens, e l’americana Jessica Woodworth, il lungometraggio racconta di un piccolo villaggio belga, isolato, nelle Ardenne, colpito da una misteriosa calamità: al momento di scacciare lo “zio Inverno”, con il tradizionale falò, la paglia non prende fuoco. Non si compie il rito. La primavera non arriva. E comincia, in un susseguirsi di immagini a dir poco suggestive, il processo di inaridimento della terra: le api non ci sono più, le mucche non danno più il latte, i semi non fanno i germogli, il gallo non canta. Comincia questa via crucis, pagana, che porterà alla fine. I due protagonisti,Alice (Aurélia Poirier) e Thomas (Django Schrevens), non a caso due ragazzi, che avrebbero di fronte a loro un lungo futuro, lottano per dare un senso alla loro vita in questo mondo che si ribella, che si capovolge, che crolla. Non c’è calore, non c’è tenerezza: senza la primavera, senza il sole, manca anche la solidarietà. Sembra di tornare nell’età primitiva, l’età della perdizione, dei sacrifici espiatori, della perdizione e del regno dell’efferatezza. Ogni cosa sfocia nella disperazione. Il disastro è annunciato: l’uomo lotta da solo, ma non come nella maggior parte dei film di fantascienza, dove l’azione e l’avventura fanno esaltare il pubblico che è solidale con l’eroe protagonista. Qui l’uomo cerca di sopravvivere, letteralmente, intraprendendo anche un percorso di tipo spirituale. Nell’epoca che stiamo vivendo, in cui siamo proprio noi a provocare la distruzione di massa di interi ecosistemi e l’estinzione di molteplici specie, ci viene presentato un film tutto meno che catastrofista, e forse proprio per questo ancora più agghiacciante e folgorante, che, attraverso la Natura stessa che si ribella - sembra nel film proprio una divinità irata, che si vendica contro la tracotanza, la hybris degli uomini – suscita nello spettatore emozioni violente, non di panico effimero, ma di duratura angoscia. È un film che colpisce a distanza, un film che colpisce attraverso la fotografia spettacolare, in cui la luce è tenue e i colori spaziano dal nero al bianco ghiaccio, senza passare per l’arcobaleno; attraverso la colonna sonora, tutta naturale (eccetto per qualche frammento di opera lirica, ascoltata da una vecchia autoradio): dai muggiti, alle foglie, alla pioggia, al fuoco, allo scrosciare dell’acqua, al canto (che non c’è) del gallo, al ronzio degli insetti, unico alimento, al trattore che cerca, disperato, la terra germogliata. E se i dialoghi sono pochissimi, fondamentali sono gli interventi lirici, d’amore tra i due protagonisti, di saggezza da parte dell’ “uomo delle api”, il capro espiatorio di un delitto collettivo, di cui nessuno si vuole prendere la colpa. E Alice urla, urla, risponde all’urlo della Natura che (forse) darà un’ultima speranza. Un film faticoso, che però vale la pena guardare, come vale la pena guardare un dipinto che rappresenta la pura, ma cruda, realtà.

Voto: 8

Lavinia Torti