
“Bling Ring”, ultimo film di Sofia Coppola, racconta di un gruppo di adolescenti che, per ossessione del possesso, si introduce nelle case delle celebrities e ruba quantità inimmaginabili di beni di lusso, tra scarpe, borse, gioielli e capi d’alta moda. Il gruppo è composto da quattro ragazze e un ragazzo, capitato nel gruppo forse per caso, “intrappolato dalla leader del gruppo” dice la Coppola – “ma di cui volevo comunque raccontare il punto di vista”. Tratto da una storia vera, è ambientato a Los Angeles, dove la normalità è sentire gli elicotteri, guidare macchine esageratamente costose, vivere in case del valore di milioni di dollari, e non troppo paradossalmente a quanto pare, senza sistemi di sicurezza: “è effettivamente facile entrare nelle abitazioni a Los Angeles, chi vive in quei quartieri sente di appartenere a una sorta di comunità felice, si sente sicuro, non presta attenzione; per questo Paris Hilton lascia le chiavi di casa sotto lo zerbino, oppure basta forzare leggermente la finestra per irrompere in casa di altre star hollywoodiane, come Audrina Patridge, Rachel Bilson, Orlando Bloom e Lindsay Lohan” dice la regista. Ed è facile conoscere anche il momento in cui i proprietari non saranno a casa: è tutto nel web. Sempre. È possibile digitare il nome di una celebrità e trovarne immediatamente l’indirizzo; poi si va sul profilo Twitter o Facebook della stessa, e si scopre che si trova a un qualsiasi evento mondano, e il gioco è fatto. “ Il problema della degenerazione dei valori avviene con la nascita di questa cultura pop, che osanna l’oversharing, la volontaria decisione di non avere più una privacy, la condivisione ossessiva di qualsiasi cosa si stia facendo, sia da parte dei ragazzi, sia da parte delle stesse celebrità. È l’era di Internet, di Facebook, dei reality shows, che influenzano gli adolescenti ai quali le famiglie, spesso assenti come nel film, non hanno trasmesso valori forti in cui credere” continua la Coppola, precisando tuttavia di non voler generalizzare il fenomeno a ogni individuo che rientra nella categoria “teenager”. E alla domanda riguardo la probabile espansione, sia temporale, sia spaziale, di questo fenomeno, lei risponde: “Da Il giardino delle vergini suicide a questo film, il modo di rappresentare le adolescenti è cambiato, perché le adolescenti sono cambiate, non sono più innocenti come 15 anni fa (Virgin Suicides è del 1999), la cultura è cambiata, e, dato che il fenomeno di ossessione per le celebrities è cresciuto dal 2008, ovvero da quando è realmente accaduto il fatto, sono curiosa di sapere se cambierà ancora, o se ci sarà una reazione. Soprattutto sono curiosa di vedere se il fenomeno diventerà internazionale, cosa che in realtà credo, dato che, pur essendo un fenomeno molto più diffuso in America, già in Francia ne vedo gli effetti, visto il potere dei social network e di Internet” La regista cominciò ad avere l’idea di scrivere questo film, dopo aver letto l’articolo di Nancy Jo Sales, intitolato “The Suspects Wore Loboutins”, che trattava di questi eventi, ovvero della gang che nel 2008 svaligiò le case di diverse persone famose, tra cui, anche più di una volta, proprio quella di Paris Hilton, che ha concesso alla Coppola il “prestito” della propria casa per le riprese di alcune scene. Dopo aver incontrato successivamente la giornalista per recepire ulteriori informazioni, la regista studiò interviste e materiali riguardo alla gang per poter trasformare la realtà in un film “senza che fosse però un documentario, per questo mi sono presa delle libertà, a partire dai nomi”. E quindi Nikki (Emma Watson, l’unica “famosa” del gruppo), Rebecca (l’esordiente Katie Chang), Mark (Israel Broussard), Sam (Taissa Farmiga), Chloe (Claire Julien, anche lei esordiente) sono gli adolescenti che commettono crimini, per cui lo spettatore non prova nessun genere di compassione, da cui non si sente mai coinvolto: “volevo che lo spettatore guardasse il film con distacco, senza empatia, anche perché anche i protagonisti non sono legati emotivamente tra di loro, l’unico legame che c’è è tra se stessi e gli oggetti che rubano, la “roba”. Quello che volevo era realizzare una combinazione di glamour e di spirito critico, e che alla fine sarà materia di riflessione per il pubblico; di certo il mio intento non era glorificare tali azioni, la scena finale non vuole rendere la protagonista un’eroina, la musica è da film dell’orrore!”. Alla bellezza di “possedere il lusso”, si aggiunge il fascino della droga, niente affatto leggera, usata e abusata, come simbolo di potere.
Dal punto di vista registico impeccabile come sempre, Sofia Coppola ci offre un film completamente diverso dai precedenti, pluripremiati (Leone d’Oro a Venezia nel 2010 per Somewhere, Oscar per migliore sceneggiatura originale nel 2004 con Lost in Translation), con seguenze più brevi, narrazione più lineare, ritmo più veloce. Anche se la fotografia (Harris Savides e Christopher Blauvelt alla direzione) è più che originale, e gli attori, per essere esordienti, non sono affatto male (e non si nota questo grande scarto tra la Watson e gli altri), forse il film pecca di qualche cura. Il fatto di non voler giudicare e di lasciare allo spettatore il compito di farsi una propria opinione, crea il rischio che l’adolescente si faccia quella sbagliata – lei stessa dice: “spero di non averlo reso troppo affascinante”. E se il monito c’è, ed è chiarissimo per un adulto, per una sedicenne che vede quelle case e quella fama, il pericolo di un’interpretazione diversa esiste: a chi non farebbe gola un armadio grande quanto un appartamento pieno di scarpe da 1000 dollari a paio?
Voto: 6,5
Lavinia Torti