Kill your Darlings

11/10/2013

di John Krokidas
con: Daniel Radcliffe, Dane DeHaan, Michael C. Hall, Ben Foster, Jack Huston

Nel 1944 un giovane ed imbranato Allen Ginsberg approda in prova alla prestigiosa Columbia University. Lì incontra l'affascinante Lucien Carr, che lo introduce in una compagnia di aspiranti scrittori ribelli. Il sodalizio tra i giovani porta alla creazione di una “setta” , la New Vision, ma anche alla scoperta delle proprie pulsioni ed aspirazioni, finché un violento omicidio porrà fine all'incanto. La fine? La Storia ci informa che, se Carr ha da allora pervicacemente operato per la propria “damnatio memoriae”, Ginsberg, Kerouac e Burroughs cominciarono a pubblicare solo dopo i drammatici eventi di quel 13 agosto.
Per quanto i fatti narrati siano accuratamente veri, il maggior pregio di “Kill your darlings” è quello di non presentarsi come un bio-pic, bensì come una sorta di versione noir de “L'attimo fuggente”. I protagonisti hanno nomi famosi, ma vengono presentati in un periodo della loro vita in cui non sono ancora nessuno, e quindi illustrati come veri e propri personaggi di un dramma. Il film ne segue le passioni, sia quelle più creative che quelle più morbose, con partecipazione emotiva e con un ritmo coinvolgente. Non è nemmeno però un film “adolescenziale”, sebbene i protagonisti siano due adolescenti, un ventenne, e due trentenni non ancora cresciuti: è un film, piuttosto, generazionale, che illustra un'epoca della vita, e il necessario passaggio delle “linea d'ombra”, del lutto da cui maturare (bellissimo il montaggio alternato dei diversi “riti di passaggio” che i ragazzi si trovano a vivere nella stessa notte), e illustra un'epoca del mondo che quasi gli corrisponde, con echi di una  seconda guerra mondiale  che alla fine troverà tutti disillusi e cresciuti.
L'ottimo script, lo stile già sicuro, la pulizia delle immagini e la cura del dettaglio non fanno certo pensare a un film d'esordio a basso costo. Che sia un film indipendente però lo si nota per la libertà di cui gode, sebbene, saggiamente, il regista non cerchi di fare un film “beat”, che rompe la sintassi a tutti i costi, ma si limiti a una cinefila strizzata d'occhio allo stile nouvelle vague, per liberarsi degli schemi esteticamente rigidi del cinema noir, che poco si adattano allo spirito dei protagonisti, e mantenerne soltanto l'essenza: la follia amorosa che sfocia ineluttabilmente in un delitto.
L'eccellente lavoro di Krokidas si esprime, oltre che nella parte di scrittura e in quella tecnica, nella direzione degli attori, visibilmente coinvolti nel progetto in maniera più che professionale. Ben Foster nei panni di Bill Burroughs è perfetto – del resto raramente Foster non è perfetto – e lo è anche da un punto di vista estetico, particolare non trascurabile quando si rappresenta qualcuno di cui sono note le fattezze; morto River Phoenix e invecchiato Leonardo di Caprio, per Lucien Carr il meglio che passava il convento era Dane DeHaan, e del resto questo brillante giovane attore dona al suo Lou tutto il carisma e l'ambiguità necessari, quel suo essere in bilico tra innocenza corrotta e crudeltà, raffinatezza intellettuale e “accattoneria”: quando, per scherzo, afferma d'essere Arthur Rimbaud gli si può facilmente credere. Michael C. Hall ha l'ingrato compito, superato in maniera eccellente e con grande sensibilità, di vestire i panni di David Kammerer, profondamente innamorato e profondamente ripugnante (il film educatamente non lo dice, ma quando Kammerer iniziò la relazione con Carr aveva 25 anni, e il ragazzo solo 10), arrogante talvolta e altre addirittura strisciante, roso dalla gelosia e terrorizzato dall'abbandono. Le presenze femminili sono poche, ma le due signore Jennifer Jason Leigh e Kyra Segdwick lasciano il segno. L'unica nota stonata risulta essere il Jack Kerouac di Jack Huston: non solo il suo bel faccino da nobiluomo inglese poco si adatta allo splendido e ruvido Kerouac, ma anche l'interpretazione appare un po' opaca (e forse è anche il personaggio meno sviluppato in fase di sceneggiatura). E Daniel Radcliffe? Era il dubbio più grosso, e non solo perché fisicamente c'entra con Ginsberg come i cavoli a merenda. Invece siamo lieti di affermare che dà l'acqua della vita all'intero progetto, aderendo quasi autobiograficamente al ruolo, passando dalla timidezza, all'entusiasmo, al turbamento, rendendo, insomma, tutte le gamme espressive appartenenti a un ragazzo represso che riesce a far esplodere il vero se stesso (un vero peccato che il doppiaggio – tra l'altro, pessimo - faccia perdere la sua abilità a mettere da parte l'accento inglese per assumere quello di un ebreo del New Jersey) . Dopo anni passati con perizia e coraggiosa scelta di ruoli ad allontanarsi dal cliché di Harry Potter, qui si affranca definitivamente dal suo ruolo-capestro: è proprio il caso di dire che riesce ad “uccidere il suo caro” e a rinascere come uomo ed attore, vero e maturo.

Voto: 7,5

Elena Aguzzi