In un Giappone da operetta dove i ciliegi sono sempre piena fioritura, il mezzosangue Kai viene allevato dai Tengu, che secondo il folklore dell’arcipelago sono una sorta di goblin delle foreste, abili incantatori, spadaccini e forgiatori di spade. Figlio di un marinaio inglese e di una contadina, che fa un po’ “Madama Butterfly” ma funziona sempre, Kai cresce ad Ako alla corte di Asano, dove viene impiegato come servitore perché la sua condizione di meticciato gli impedisce di diventare un samurai. Neanche a dirlo, Kai e Mika, la figlia di Asano, si amano di un’amore impossibile, divisi da differenze di classe e nazionalità. Quando il perfido Kira, con l’ausilio della stregoneria, provocherà a bella posta l’incidente che condurrà Asano alla morte, Oishi e i suoi uomini diventeranno “ronin”, samurai senza padrone, mentre Kai verrà venduto come schiavo agli olandesi. Un anno dopo, però, Oishi e Kai si riuniranno per vendicare la morte del loro Signore.
La vicenda dei 47 Ronin è uno dei miti più influenti su cui si è costruita l’identità nazionale giapponese. Nel 1701 il “daimyo” Asano Naganori, mortalmente insultato dal maestro di cerimoniali Kira Yoshinaka, estrasse un’arma nel palazzo dello Shogun. Kira se la cavò con una lieve ferita, mentre Asano fu condannato a commettere “seppuku” per la sua imperdonabile infrazione. Per vendicarne la morte, due anni dopo i suoi uomini assaltarono il palazzo di Kira, a Edo, e posero la sua testa mozzata sulla tomba di Asano. Il fatto ebbe enorme risonanza e lo Shogun Tokugawa Tsunayoshi, sotto la pressione dell’opinione pubblica, condannò i Ronin al “seppuku”, risparmiandogli così l’umiliazione di venire giustiziati come criminali comuni. Già nel 1748 la storia fu adattata per il teatro “kabuki” e per il “bunraku” da Takeda Izumo, il quale scrisse la pièce “Chūshingura” (Il tesoro dei cuori leali), che viene messa in scena ogni anno. Le versioni teatrali, cinematografiche e televisive della vicenda sono innumerevoli. Basti pensare che il primo adattamento per il grande schermo di Konishi Ryo risale al 1907, e che nel corso degli anni si sono misurati con la vicenda registi come Mizoguchi (1941-42), Fukasaku Kinji (1978) e Ichikawa Kon (1994). I valori propugnati dal “Chūshingura”, onore, spirito di sacrificio e lealtà assoluta verso i superiori, si intrecciarono poi con l’etica del Bushidō, la “Via del guerriero”, che venne paradossalmente elaborata durante il lungo periodo di pace dei Tokugawa, quando i Samurai erano una casta in declino, da Yamaga Sokō, Daidōji Yuzan e Yamamoto Tsunetomo. Il risultato fu la definizione di un’insieme di valori condivisi in cui il popolo giapponese potesse riconoscersi, valori che vennero a forgiare il carattere nazionale, fornendo un efficace substrato ideologico al militarismo negli anni della Guerra del Pacifico e della II Guerra Mondiale. Non a caso, proprio in quegli anni Mizoguchi fu “obbligato” dal governo a realizzare una nuova versione del “Chūshingura”.
Con tali presupposti, che cosa può venire fuori da una versione americana dei “47 Ronin” diretta dall’esordiente Carl Rinsch? Un ibrido “mezzosangue” come il suo protagonista, che non ha persuaso le platee occidentali e che è stato ignorato in Giappone, dove è stato presentato in una versione appositamente rimontata, nonchè il più grosso flop della Universal degli ultimi anni. Due sceneggiatori, Hossein Amini (“Drive”) e il Chris Morgan della saga di “Fast & Furious”, e svariati rimontaggi non sono riusciti a rendere coerente un’ambientazione pseudo-fantasy del tutto pretestuosa, dove risultano velleitari anche i richiami alla mitologia nipponica (i Tengu, l’Oni e il Kirin).
La fusione improvvida tra Oriente e Occidente è stridente quanto quella tra il “Chūshingura” e il fantasy. Il Giappone osservato e/o immaginato da uno sguardo occidentale si traduce in un accumulo di stereotipi, buono al massimo per soddisfare la brama di esotismo del turismo di massa, soprattutto se il regista ha l’entusiasmo esagitato del tour-operator. Senza contare che Carl Rinsch, nonostante menzioni a sproposito Hokusai e Hiroshige, si rivela piuttosto debole in geografia, confondendo Cina e Giappone per quanto concerne i suoi riferimenti visivi. La Strega interpretata da Rinko Kikuchi sembra venir fuori direttamente da un film di Ching Siu-tung o da “Painted Skin”, incarnazione volpina compresa, mentre le coreografie da “wuxia” delle scene d’azione scimmiottano senza ritegno il cinema hongkonghese. Purtroppo non è sufficiente qualche svolazzo artificioso della macchina da presa, né il trastullarsi con sfavillanti palette cromatiche per diventare Tsui Hark o Zhang Yimou. L’infausto connubio transnazionale genera un figlioccio deforme, con qualche richiamo persino al “Signore degli Anelli”; l’ingresso di Kai e Oishi nella caverna dei Tengu, rammenta infatti in modo sospetto la sequenza nella quale Aragorn si reca a chiedere aiuto all’Esercito dei morti.
Nella catastrofe, si immolano valorosamente Tadanobu Asano (Kira), Hiroyuki Sanada (Oishi), Rinko Kikuchi (la Strega) e la scialba Ko Shibasaki (Mika), costretti a recitare inspiegabilmente in inglese, mentre Keanu Reeves prosegue nella sua infatuazione per l’Oriente, che lo ha portato a dirigere e interpretare “Man of Tai Chi”, cavandosela con sobria dignità nel ruolo dell’”outcast”. Pensandoci bene, Carl Rinsch deve detestare davvero i “47 Ronin” e ciò che rappresentano, talmente tanto da dimenticarsi di farli affiancare dal “kaishaku”, l’addetto alla decapitazione, nel loro sacrificio conclusivo. E così il “seppuku”, proprio come il film, perde le proprie caratteristiche di rituale altamente formalizzato risolvendosi in un mero sbudellamento.
Voto: 5
Nicola Picchi