Dimenticate il Nicolas Cage dei film d'azione o delle commediole romantiche, perché Joe è il felice caso di un film indipendente di crudo realismo, che guarda senza fronzoli a un'umanità alla deriva. Eppure un film che inizia con dei pini che vengono avvelenati e finisce con degli alberelli che vengono piantumati non può essere del tutto angosciante e ci presenta, anzi, un happy ending sui generis.
La storia è semplicissima: Gary (la rivelazione Tye Sheridan) è un quindicenne, angariato da un vecchio padre ubriacone e violento, che cerca una via d'uscita lavorando nella squadra di manovali di Joe, un avanzo di galera che è però un brav'uomo, un solitario che cerca di non ricascarci, un rude dall'istinto protettivo. L' “educazione sentimentale” finirà duramente ma non senza speranza. Dunque un romanzo di formazione con ben poco di romanzesco, se non un certo romanticismo strisciante mano a mano che conosciamo Joe e si sviluppa il rapporto tra i due derelitti (con la complicità di un cane). Se vogliamo, un Oliver Twist in chiave moderna, sulle orme iconografiche di “Un gelido inverno” (l'America periferica e degradata della gente che vive in case fatiscenti, della working class più disagiata e ubriacona), ma dove la durezza è stemperata dalla luce del sud – e dalla felice scelta di lasciare molti dettagli biografici sottaciuti. Soprattutto la prima parte, con la cinepresa che fruga tra i lavoranti, è molto precisa e impietosa, poi si cade un po' nel cliché del vendicatore solitario, del resto necessario per fare avanzare il plot e arrivare a una conclusione.
Luci, scenografie, interpretazioni, appaiono tutte naturali (persino la performance di Cage, che per una volta gioca più di sottrazione che di accumulo) e nell'insieme, pur essendo un film per certi versi difficili da digerire per la durezza dei comportamenti mostrati, risulta una ventata d'aria fresca.
Voto: 7
Elena Aguzzi