Il giovane favoloso

19/10/2014

di Mario Martone
con: Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio

All'inizio eravamo sinceramente delusi. Il film si presentava aneddotico e didattico, in stile digest televisivo su vita e opere di Giacomo Leopardi, con momenti quasi sconfortanti quando lo si sentiva dialogare usando le parole dei suoi diari o recitava ad alta voce le proprie poesie o infine quando ci venivano proposte le immagini di lui che sospirava verso la finestra di fronte “ talor lasciando le sudate carte” per contemplare “la man veloce che percorrea la faticosa tela” della fanciulla di fronte. Certo , la ricostruzione era perfetta, il ritratto del padre e del loro rapporto di odio-amore efficace, l'interpretazione di Elio Germano da subito essenziale, al punto da chiedersi se senza di lui il film avrebbe potuto esistere. Però dopo aver letto dichiarazioni sul fatto che la pellicola ci voleva presentare un Leopardi diverso da quello che apprendiamo sui libri di scuola, in realtà non faceva che riproporci il solito giovane malinconico ripiegato su se stesso (in tutti i sensi, con tanto di gobba stile Aigor).
Poi appare una scritta “dieci anni dopo”, e il film cambia. Smette di raccontarci gli episodi e di dirci cosa prova il poeta, per mostrare gli avvenimenti e suggerire i sentimenti. L' ellissi temporale non viene mai colmata da dialoghi esplicativi, le visioni leopardesche prendono corpo, il carattere si fa più incisivo: come se liberato dalla cella di Recanati non solo l'uomo ma anche il film cominciasse a respirare. Martone addirittura osa con trovate registiche un po' spiazzanti, ma personali (il pianto lungo il fiume, la scelta delle musiche). E man mano che il viaggio di Leopardi scende lungo lo stivale, la pellicola prende quota. Giunto a Napoli Martone si sente a proprio agio e finalmente rompe gli indugi: ed è solo esprimendo la propria poesia che riesce a cogliere quella di Leopardi, a fare un film poetico e non un semplice biopic su un poeta.
Ecco dunque Napoli, terra promessa ed incubo, abitata da “lazzaroni pulcinelli” che fan rimpiangere il “natio borgo selvaggio”, circondata da una natura stupenda e malevola. Leopardi si aggira tra i vicoli infestati da lussuria e colera, un po' Anna Bonaiuto ne “L'amore molesto”, un po' Dirk Bogarde in “Morte a Venezia”; e sulle pendici del Vesuvio termina il  viaggio della vita senza mai trovare vero conforto per il suo fisico martoriato e per il suo animo amletico esacerbato dal dubbio, la malinconia e il pessimismo. Sublime il finale sulle rime de “La ginestra”, dove parola e immagini si incontrano creando un momento di vera poesia.

Voto: 7,5

Elena Aguzzi