Janis

04/10/2015

di Amy J. Berg
con:

Il titolo originale Janis: Little Girl Blue rimanda all’interpretazione indimenticabile del brano di Hart/Rodgers offerta dalla Joplin, immortalata nell’album “Pearl”; tre parole a riassumere con efficacia, almeno in parte, uno degli stati d’animo (la malinconia) che più devono aver segnato la breve vita della cantante.
Una persona dalla vitalità sorprendente e dal temperamento ribelle; un animale da palcoscenico che nascondeva cicatrici profonde, dovute al senso di inadeguatezza provato durante l’adolescenza, e anche in seguito, casuato dalle umiliazioni subite (il documentario rivela, ad esempio, che durante il corso di studi, la sua corporatura non certo longilinea e il volto non proprio da modella spingeranno alcuni imbecilli a eleggerla “il ragazzo più brutto dell’istituto”); una donna consapevole del proprio talento, ma estremamente fragile, alimentata dal bisogno disperato e dal desiderio di essere amata (si veda la bellissima I Need A Man To Love incisa nell’LP “Cheap Thrills”), scottata dai diversi rapporti infelici che instaura o che si lascia alle spalle.    
Amy J. Berg ha realizzato un’opera molto interessante, preferendo al racconto della carriera – fulgida quanto fugace – della star, il ritratto di un’artista colta nella sua dimensione più umana. I filmati e i materiali d’archivio, con spezzoni “live”, sono gioielli preziosi per gli appassionati della musica di quegli anni d’oro, e le interviste a familiari e a collaboratori (tra gli altri, Kris Kristofferson, autore di Me and Bobby McGee, forse l’interpretazione più celebre della cantante) permettono alla regista di tratteggiare la figura di Janis Joplin con maggiore profondità.
Ciliegine sulla torta, le scene (alcune brevissime e già viste) che mostrano Otis Redding, Jimi Hendrix, Pete Townshend e Keith Moon degli Who in concerto; il “Festival Express” con la Joplin che suona insieme al compianto Jerry Garcia, dei Grateful Dead; la foto dagli archivi della casa discografica Elektra, in cui scorgiamo il grande Tim Buckley, altro protagonista (sebbene assai defilato) di quel periodo irripetibile che così tanto ha regalato alla “popular music” del ventesimo secolo.

Voto: 9

Andrea Salacone