L’attacco
improvviso di un mostro gigantesco visto in prima
persona. Questa la carta vincente di “Cloverfiield”:
affrontare il genere catastrofico da una visione
in soggettiva. Tutto con la videocamera a mano,
il film appare così come il documento di
una serata catapultata improvvisamente nell’orrore
dell’irreale, della durata della videocassetta
inserita, e si cala all’interno delle paure
dei protagonisti facendo scattare l’immedesimazione.
Noi sappiamo quello che loro sanno: chi sia il
mostro, da dove venga, perché, non ci è
dato modo di saperlo. Siamo a una festa, stiamo
vivendo piccole tensioni e contrasti, all’improvviso
sembra esserci un terremoto, la testa della Statua
della Libertà piomba gigantesca in mezzo
alla strada, crollano i palazzi, si mormora di
una mostruosa creatura, alla televisione appare
qualcosa di orrendo, poi quella “Cosa”
incombe anche su di noi. Intanto la videocamera
continua a riprendere, prima con spaventata curiosità,
poi con confusione e smarrimento, infine con sempre
crescente angoscia e frenetico terrore.
Viene subito alla mente l’operazione di
“Blair Witch Project”, ma dove lì
regnava l’angoscia inespressa dei boschi
e il mistero invisibile, qui il connubio tra il
genere catastrofico alla “Godzilla”
con effetti speciali e lo stile apparentemente
povero con l’uso dell’handycam è
strabiliante, in un continuo oscillare tra il
terrore di una catastrofe che distrugge il mondo
e le paure individuali del sempre più esiguo
gruppo di protagonisti dalla cui angolazione si
osserva la tragedia. Condito di tocchi di puro
horror, il film ha dei momenti da attacco cardiaco
e potenti invenzioni visive ed è giostrato
su una tensione che aumenta al passo con la disperazione,
sferrando attacchi a sorpresa e lasciando il segreto
della paura nell’irrazionale e nell’ignoto.
Voto: 7,5
Gabriella Aguzzi
La premessa è semplice: in un'America ancora
sconvolta dalla tragedia dell'11 settembre, un
gruppo di ragazzi si trova a dover fronteggiare
una minaccia ancor più drammatica. La prima
reazione, se possibile, è ancora più
semplice: ed è quella, facile e superficiale,
di ascrivere Cloverfield al filone, così
retrò eppure così modaiolo, dei
"monster movies", riveduto e corretto
da anni di catastrofi natural-cinematografiche,
invasioni aliene - vuoi hypertech (La guerra dei
mondi), vuoi esistenzialiste (Signs) - e boschi
abitati da inquietanti presenze. Sì, perché
è implicito il rimando, almeno nella memoria
visiva dello spettatore, a quella Strega di Blair
che fu, ai suoi tempi, spacciato come "il
film più terrorizzante dopo L'Esorcista".
Ed è nella profonda esperienza che separa
i due film, The Blair Witch Project e Cloverfield,
che la pellicola di Matt Reeves (anche se è
forte la tentazione di attribuirne la paternità,
in pure stile Vecchia Hollywood, al suo produttore,
J.J. Abrams) svicola dal semplice film di genere,
diventando un'opera cinematografica di spessore
e levatura insperati. E questa differenza è
lo straziante senso di realismo: quando The Blair
Witch Project tentava, fallendo, di impressionare
lo spettatore con un'impressione di realtà,
arrivava tutt'al più a scimmiottare l'estetica
da Real TV, mancando persino un discorso metacinematografico
quasi scontato. In Cloverfield, invece, e soprattutto
grazie a meriti di sceneggiatura, il realismo
è una componente fondamentale della narrazione
filmica: la trama fantascientifica si trasfigura,
inizialmente, in una metafora suggerita (nemmeno
troppo sottilmente) degli attentati terroristici
alle Torri Gemelle. E non si fa fatica a dire
che sia la parte meno interessante dell'opera.
Quando, però,
il film entra nella sua parte centrale, la telecamera
a mano impugnata da uno dei personaggi (non uno
dei protagonisti, attenzione: il film è
molto attento nello sfuggire ai clichés
dei "survival horror") cessa di essere
vezzo stilistico e diventa tema, significato:
abituati ad un occhio cinematografico che spiega,
analizza e sovra-costruisce, rimaniamo spiazzati
da una telecamera traballente, che si spegne spesso,
che causa continue ellissi, vuoti narrativi che
solo uno spettatore attento può colmare.
Il realismo assoluto di una situazione grottesca
e fantastica sta in questi momenti di buio, di
non-detto, in questa mancanza di spiegazioni e
di centro: non ci sono certezze rassicuranti,
alla fine di Cloverfield, solo un messaggio disperato
(obbligatorio rimanere fino alla fine dei titoli
di coda), e brandelli di informazioni con cui
fare i conti, su cui ragionare per trovare una
via d'uscita.
Come il suo
titolo, come i molti riferimenti abbozzati, Cloverfield
è un film misterioso: non si fa afferrare
saldamente, ma agisce - grazie anche alla grandiosità
visiva e alla maestria tecnica (plauso speciale
al comparto sonoro) - come un delicato meccanismo
ad incastro. Come nella realtà, si ha l'impressione
che tutti i pezzi del puzzle siano lì,
di fronte a noi, ma non si riesce comunque a sciogliere
la matassa. Qui sta la grandezza di un film che
si va a vedere per la curiosità del "mostro"
(curiosità che non rimane delusa), ma che
si fa ricordare come una delle opere più
disturbanti e destabilizzanti degli ultimi anni.
Voto: 8
Andrea Morstabilini