
Molta
era la curiosità sul primo film occidentale
di Wong Kar Wai. Avrebbe assorbito le atmosfere
e gli umori di un altro Continente e di un altro
Cinema, mimetizzandosi come ha fatto Ang Lee,
o sarebbe rimasto nel suo intimo orientale? Vedendo
“My Blueberry Nights” (non badate
all’imbecillità del titolo italiano
“Un bacio romantico”) si può
affermare che Wong Kar Wai resta soprattutto se
stesso, il poeta degli amori persi e sfiorati,
il cineasta dal tocco inconfondibile che, in ogni
luogo si spinga vagabondo (l’Argentina di
“Happy Together”, l’Oriental
Hotel di “2046”, la caffetteria di
“My Blueberry Nights”) canta la difficoltà
di capirsi e di amare. La sua è un’America
di piccola umanità alla deriva, vista con
lo sguardo estraniato del forestiero, che lo avvicina
forse più alla sensibilità europea
di un Wenders che a quella dei cineasti americani.
E vi si sperde come nella Hong Kong di “Hong
Kong Express” o di “Angeli Perduti”,
per soffermarsi su un microcosmo di diversi cui
pochi prestano attenzione, come quelle torte di
mirtilli abbandonate sempre sul bancone, che si
incontrano, si sfiorano e si assomigliano nelle
loro tristezze e solitudini.
E’ una storia di occasioni mancate e di
nuovo raccolte, di ricordi che sbiadiscono abbandonato
un luogo, di amori che si cancellano col tempo,
di chiavi lasciate per rabbia e di attese di riaprire
quelle porte chiuse, di lontananze, lettere che
si incrociano e non si raggiungono, diari mentali.
Storie che si concatenano da una caffetteria all’altra,
sciolte nella luce al neon, riflesse dietro vetri
opachi e insegne luminose, da cui qualcuno esce
sempre chiudendosi dietro la porta. Illuminate
dai visi bellissimi di Jude Law (straordinario
il suo personaggio) e Norah Jones, dall’avanzare
sinuoso e provocante di Rachel Weisz, dalla disperazione
di David Strathairn, da un’insolita Natalie
Portman sbandata giocatrice d’azzardo. Struggenti
come gli addii che restano così difficili
da dire.
Voto: 8
Gabriella Aguzzi