
Il
cinema dei fratelli Coen ha due anime: una irridente
e grottesca, che si innesta su storie noir per
smitizzarle e decostruirle; una apertamente dark,
dove l'umorismo diventa estremamente nero e sottile,
finendo con l'amplificare anziché addolcire
il disperato e inevitabile avanzare del fato.
La seconda è la vena indubitabilmente migliore,
e “No country for old men” ne è
uno degli esemplari più fulgidi.
Era inevitabile che i Coen finissero con l'adattare
il capolavoro di Cormac Mc Carthy, sia per il
materiale narrato (un onest'uomo si trova tra
le mani 2 milioni di dollari e non resiste alla
tentazione di portarseli via, finendo così
inseguito sia dalla giustizia che, più
pericolosamente, da un killer psicopatico e spietato),
sia per i temi sottostanti (il vano tentativo
di resistere retti e forti contro un mondo che
va in pezzi), sia per il tono, violento e insieme
ironico, della narrazione, senza considerare il
fatto che i fratelli sono pure texani. Era anche
prevedibile che l'adattamento sarebbe stato un
successo, ma non era altrettanto scontato che
riuscisse in modo così perfetto, asciutto,
pungente, toccante, emozionante, senza un solo
volto o parola o inquadratura di troppo o di sbagliato.
E' vero che ho visto qualche collega perplesso
sulla conclusione, ma probabilmente perché,
dopo due ore di attesa di qualcosa di più
ovvio e rassicurante, riesce a lasciare sbalorditi
e amareggiati, con gli avvenimenti più
tragici lasciati fuori scena, quasi all'interpretazione
libera dello spettatore, mentre quel che resta
di sicuro in mano è la constatazione che
la realtà si fa sempre più brutale
e inspiegabile, che questo mondo non è
posto per vecchi
Non si può però parlare del film
senza parlare degli interpreti, non per il semplice
fatto che sono “bravi”, ma perché
incarnano non solo il loro personaggio ma un punto
di vista della storia, una chiave di regia. Il
“buono” (tra virgolette non perché
non lo sia totalmente, ma perché anzi ne
è il prototipo), lo sceriffo Bell, ha le
rughe profonde del texano Tommy Lee Jones: rude
e malinconico, idealista e disincantato è
il vecchio saggio che cerca di contrastare la
malvagità e non può che riderne
incredulo (“Hanno arrestato due tizi che
tenevano una pensione per vecchi, li uccidevano
e seppellivano in giardino per intascarne la pensione:
prima li torturavano anche, non si sa perché.
Li hanno scoperti perché un vicino si è
insospettito a vedere un vecchio che fuggiva con
indosso solo un collare per cani. Scavare in giardino
non era abbastanza appariscente”), e noi
la storia la vediamo coi suoi occhi, assistiamo
impotenti al tempo che passa e al mondo che peggiora.
La via di mezzo, il povero Moss che crede di poter
dare un futuro migliore alla moglie e finisce
braccato, è Josh Brolin, volto più
da comprimario che da protagonista, ruvido e saggio
che commette una sola pazzia sapendo di farla
e dovendo poi passare tutto il tempo a cercare
di aggiustarla, come il più classico dei
personaggi noir alla Robert Mitchum: attraverso
di lui il pubblico tiene sveglia la speranza.
Il “cattivo”(stesso discorso fatto
per il termine “buono”), il misterioso
Anton Chigurh, è Javier Bardem: nero, freddo,
spietato, folle, non si sa da dove viene, come
il Male di cui è la beffarda incarnazione
non ha origine ed è inarrestabile: solo
Bardem poteva riuscire a dare un fisico e quasi
una psicologia a un personaggio più metaforico
che realistico, a renderlo terrificante. Quarto
personaggio, il paesaggio, sia quello arido e
inospitale del Texas di frontiera, sia quello
anonimo e squallido delle roulotte e dei motel.
Angosciante ma leggero, lineare ma ellittico “Non
è un paese per vecchi” è un
film da non perdere, e non solo per i fans dei
geniali fratelli.
Voto: 9
Elena Aguzzi