T2 Trainspotting
20/02/2017
di Danny Boyle
con: Ewan McGregor, Ewen Bremner, Jonny Lee Miller, Robert Carlyle
Sono passati vent’anni da quanto Mark Renton, Rent Boy, ha scelto la vita, quella vita normale che tanto disprezzava, dall’alto dello sfrenato cinismo e dallo smisurato senso di onnipotenza che scaturiscono da quel cocktail micidiale di gioventù e tossicodipendenza. Non ci eravamo chiesti neanche che fine avesse fatto: era così tanta in lui la certezza di un futuro normale che avevamo semplicemente immaginato che non solo Mark stesse abbracciando quella normalità, ma che anche la normalità stesse abbracciando lui. E, invece, ci ha pensato Danny Boyle a raccontarci che le cose non sono andate proprio come ci aspettavamo o, per lo meno, come si aspettava chi non ha letto “Porno”, di Irvin Welsh, romanzo da cui è stato tratto “T 2: Trainspotting 2”.
T 2 è una resa dei conti, un tentativo di fornire tutte le risposte alle domande con cui ci lascia il “Trainspotting” del 1996, seconda opera cinematografica dell’allora semisconosciuto Danny Boyle, destinato a diventare un vero e proprio cult. Lontano dall’essere un mero racconto della dipendenza da eroina, Trainspotting è stato una pesante critica ad una società in crisi, in cui ai giovani sembra che la normalità sia talmente squallida ed avvilente –basti pensare alla vita grottesca e vuota dei genitori di Mark- che l’unica prospettiva diventa quella di scegliere di non avere prospettive, di scegliere di non scegliere, di non avere ragioni perché “chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?”. Vent’anni dopo, Mark ha scelto una normalità che non gli appartiene, che lo fa sentire estraneo a se stesso e che, per questo, lo frustra. Ad esprimere pienamente l’insoddisfazione lampante di Renton è una forzata reinterpretazione del monologo “Scegliete la vita” che, sferzando deboli e banali attacchi ad un mondo ormai scandito da Facebook, Instagram e Twitter, ha perso quasi completamente la cruda ma sincera bellezza del monologo originale.
Sicuramente chiamarlo “Porno”, così come il libro, sarebbe stata una scelta che rischiava di generare ambiguità e probabilmente è per questo si è scelto di ripiegare sul più scontato “T2: Trainspotting 2”. Eppure “porno” sarebbe stato non solo un molto più tagliente ed efficace, ma avrebbe anche liberato il film da un confronto perenne con il primo capitolo, confronto che parte già dal titolo. E, probabilmente, il vero difetto di questa pellicola è proprio questo: non è un’opera a sé stante, non ha un proprio marchio distintivo; si tratta semplicemente un insieme di meravigliosi tecnicismi registici costruiti ad hoc per colmare la debolezza della trama. Non mancano, ad ogni modo, numerosi elementi assolutamente apprezzabili: l’ottima regia, la sorprendente capacità di citare e riprendere scene memorabili del Trainspotting originale, la maestria degli interpreti, fra cui spicca il sociopatico Begbie-Carlyle.
Persi l’irriverenza, il sarcasmo, la cattiveria, il disgustoso fascino che hanno reso “Trainspotting” una pietra miliare del cinema anni ’90, non resta che rifugiarsi nella fotografia quasi perfetta, nelle inquadrature azzardate ma spettacolari ed in una eccellente colonna sonora –già punti di forza del primo capitolo- per creare un film che, nel complesso, è piacevolissimo da vedere ma di cui si stentano a ricordare il senso ed i dettagli non appena usciti dalla sala.
Voto: 6,5
Chiara Di Ilio
Rivisto qualche giorno prima della proiezione del seguito, che è in arrivo sui nostri schermi, il Trainspotting del 1996 si conferma e rimane un film originalissimo. Un congegno perfetto impreziosito da ritmo incalzante, colonna sonora inappuntabile, dialoghi frizzanti, e cambiamenti d’atmosfera repentini legati a sequenze visionarie indimenticabili, tra scatologia e citazioni cinefile (“L’Atalante” di Vigo!), sgradevolezza, scene macabre e cattivo gusto.
Il tema, assai delicato, la tossicodipendenza, era affrontato in maniera vivace e scanzonata, anche se, nonostante l’euforia che caratterizzava la pellicola, il regista non glissava sugli aspetti più inquietanti dell’“avere la scimmia sulla spalla”.
In “T2 Trainspotting” gli squarci allucinati innescati dai trip dei protagonisti, gli stessi del film del 1996, abbandonano il campo, e l’ebbrezza e lo stordimento sono rimpiazzati da pacata rassegnazione e dal parziale tentativo di rientrare in una quieta, forse banale, finanche grigia “normalità” dopo aver vissuto per anni sopra le righe.
Agli interni claustrofobici del primo capitolo fanno da contraltare gli spazi aperti, con qualche scorcio naturale messo in relazione con l’idea di rinnovamento e di disintossicazione, ma le inquadrature indugiano su sfasciacarrozze e periferie degradate. Edimburgo assume un ruolo importante: la vediamo di più rispetto al “Trainspotting” del 1996, ma più che una città da cartolina, dal fascino indiscutibile, diventa un luogo squallido che rispecchia alla perfezione la desolazione delle vite di Mark, Spud, Begbie e Sick Boy.
Anche il sesso ha subito un cambiamento, trasformandosi in qualcosa di degradante: pure in “T2” assistiamo a performance che sono state filmate, ma stavolta non si tratta di uno spunto comico (il Tommy del primo capitolo aveva immortalato in videocassetta i propri incontri con Lizzy, la sua ragazza), e le riprese vengono utilizzate da Sick Boy per ricattare pervertiti danarosi.
Allora il brio e la vitalità sono un ricordo del passato?
Niente affatto: i quattro mattatori Ewan McGregor (Mark Renton), Ewen Bremner (Spud), Robert Carlyle (Begbie) e Jonny Lee Miller (Sick Boy) ispirano e conquistano la simpatia dello spettatore, e la regia di Danny Boyle si mantiene fantasiosa e brillante. Alcuni nei però saltano agli occhi: la lunghezza (due ore sono troppe, e nell’ultima parte il ritmo si fa meno travolgente); il ricorso a momenti che occhieggiano al thriller; la malinconia serpeggiante che deve trovare una rappresentazione visiva poetica (le scene con Spud che si mette a scrivere, idea di per sé assai efficace).
A vent’anni dal loro esordio cinematografico, i nostri eroi si confrontano con una bramosia di vita (“Lust for Life”) affievolita e con la spensieratezza della gioventù che si è dileguata. Affrancati, chi più chi meno, dalla dipendenza dalla droga; qualcuno animato da un desiderio di vendetta per un tradimento subito; l’amicizia, un legame che si può riannodare, rinsaldare o spezzare in qualunque momento. Più fragili, ma maledettamente “umani”. Incerti sul da farsi: mettere la testa (quasi) a posto, o abbandonarsi di nuovo alla sregolatezza, tentazione insidiosa, e irresistibile, che rimane sempre dietro l’angolo.
Voto: 8
Andrea Salacone
Il film cult di metà anni '90 ha partorito il suo erede, T2 Trainspotting o, per gli amici, tutti quanti alla fin fine, T2. Le aspettative erano tante. Come riuscire, infatti, a creare un film che fosse all'altezza di quel lungometraggio inserito tra i migliori cento film britannici del XX secolo?
E di sicuro, l’ansia e l’agitazione non sono stati solo dei creatori ma anche del pubblico.
La cinepresa di nuovo si accende sui quattro protagonisti, Mark, Francis, Spud e Sick Boy, esattamente dove li avevamo lasciati vent’anni fa. Perché i quattro moschettieri di Edimburgo, nonostante le rughe, qualche tratto indurito e il capello rado, non si sono mossi da quell’ultimo frame datato 1996. E come sottolinea anche Veronica nel suo nativo bulgaro, il legame con il passato è pesante nelle loro vite, quasi totalizzante.
Un effetto amarcord che si snoda per tutti i 117 minuti del film, dove il richiamo al primo film è una costante, a volte quasi un’ossessione. Come il passato per i quattro personaggi del film.
Dalle inquadrature casalinghe di Mark con suo padre (e lo spirito della madre) alle varie (ripeto, forse troppe) evocazione di quella risata sardonica di Mark contro un parabrezza. Il passato è talmente in T2 che T2 è quasi il passato.
Espediente narrativo usato per spiegare a noi spettatori la situazione di stasi dei personaggi o puro zuccherino da rifilare ai fan? Perché, diciamocelo, i protagonisti saranno pure legati al loro passato ma anche noi fan-adepti di questo culto generazionale non siamo mica da meno.
Stipati nelle poltroncine proletarie della sala, cerchiamo quel di più, quel qualcosa che non ci faccia uscire dalla sala pronunciando la solita frase fatta: “eh, è un sequel. Si sa che non è mai bello quanto l’originale”. Vorremmo uscire dalla sala felici che T2 non sia solo una copia, un regalo privo di personalità propria fatto ai fan; vorremmo trovare lo stesso charme di Trainspotting ma con quel qualcosa in più. Illusi? Utopici?
Forse no, perché qualcosa, alla fine, succede infatti. Magari non quel di più tanto bramato e sperato, ma qualcosa succede. A livello narrativo, l’evoluzione di Spud commuove e un po’ intriga; soprattutto immaginarselo come l’autore da cui tutto è partito e cui tutto è tornato. L’involuzione di Mark affascina per il suo essere così anticonformista di questi tempi, dove tutto è improntato sul miglioramento di sé: quel suo tornare a casa, alla sua vecchia vita tra gli edifici brutalisti e quel 33giri presentato come la madeleine proustiana, ci ringalluzzisce. Mark è tornato e ha fatto pace con il suo passato. Ora, balliamo in cameretta.
La regia, invece, mantiene la sua firma d’autore nel suo ritmo rock, salvando qualche volta una storia che forse procede troppo a rilento o sa quasi da stantio.
Complessivamente, T2 si palesa come il fratello maggiore di Trainspotting. Quel fratello maggiore che vive di ricordi, di quel “vorrei ma non posso”, che vorrebbe sfoggiare l’allure di un tempo, il fascino bastardo dei bei tempi andati ma che, la panza, le rughe e la paura di un acciacco fatale, trasformano il tutto in semplice “nostalgia canaglia”. Ma, si sa, che il vintage è di moda e, onestamente, vedere sullo schermo delle vite normali, dove nessuno primeggia e si fallisce ogni due per tre, rincuora. Alla fine il disagio rimane e noi questo cercavamo. Anche se fa tanto amarcord.
Voto: 6,5
Roberta Costantini