La vita ci offre poche certezze, ma tra queste c'è che un film di Cronenberg è
sempre qualcosa di interessante. Tra le sue doti, quelle di saper rivisitare in
maniera molto personale i generi più vari e popolari, quali l'horror, la
fantascienza, il melodramma. Col precedente A history of Violence, si era
avvicinato al noir, ma ora con Eastern Promises (in italiano La promessa
dell'assassino, titolo non brutto, ma che non c'entra niente) ci si cala
completamente, riproponendo in maniera quasi filologica il tipico noir post
bellico, pur filtrato dal suo gusto e personalità.
La storia si svolge nella
Londra periferica di oggi, dove una ragazza russa giunge in ospedale per
partorire e muore dissanguata. L'infermiera di turno vuole scoprire chi è la
ragazza, e si imbatte così in un gruppo mafioso russo guidato dal mellifluo
ristoratore Armin Muller-Sthal e dal suo nevrotico rampollo Vincent Cassell.
Autista e tirapiedi di questi è l'ambiguo Viggo Mortnesen, e prima di arrivare
alla fine verrà sparso molto sangue, e il bene per vincere dovrà scendere a tali
compromessi col male fino a identificarcisi.
Fatte le debite proporzioni,
potrebbe essere un film di Fritz Lang, sia per il tema del doppio (doppio gioco,
doppia personalità...) che per il cinico “happy end”, sia per lo sguardo
particolare sul mondo del crimine, ma, come si diceva, Cronenberg si diverte a
riproporre tutti i cliché e i topoi del noir dei tardi anni '40, non a rifarsi a
un solo autore: una ragazza sola e minacciata in una metropoli, un cattivo che
si rivela buono e che attrae la nostra eroina (con un bel ribaltamento dello
stereotipo investigatore/ good-bad girl), una minacciosa comunità esotica,
l'ambiente limbo dell'ospedale, il rapporto morboso tra il capo e il suo
scagnozzo (certe sequenze sembran tirate fuori da La chiave di vetro), il
sadismo, i vicoli bui, persino una sequenza nel classico bagno
turco.
Intelligentemente, Cronenberg non ripropone tutto ciò col “look”
dell'epoca (fotografia fortemente contrastata, luci tagliate...), mantenendo il
suo stile freddo: inquadrature ferme, colori lividi, piani ravvicinati, che
sposta il gioco da semplice imitazione a vera riappropriazione delle varie
tematiche. Se poi si vuole confrontare Eastern Promises alle precedenti opere
del regista canadese, c'è sicuramente il gusto-ossessione per la manipolazione
del corpo e della personalità, coi tatuaggi che narrano la vita dell'individuo
che li porta.
Contribuisce alla riuscita del film la scelta dell'ottimo cast,
su cui troneggia un Mortensen “mostrificato”, doppio (...) del suo nemico Ed
Harris in A history of Violence, e che un po' rimanda anche, nella sua
controllata nevrosi, al Richard Widmark di Strada senza nome, che a sua volta
ricorda, in un continuo gioco di specchi e rimandi, Vincent
Cassell...
Tuttavia, il film è tanto bello che può essere apprezzato anche da
chi non è un cinefilo!
Voto: 8
Elena Aguzzi