Un riconoscimento bisogna assegnarlo all’ultimo delirio di David Lynch, ed è quello di Peggior Film del Secolo. Lynch ci infligge tre ore di demente vaniloquio, affastellando immagini come l’estro gli suggerisce, ma senza visionarietà oltre che senza logica, senza ritmo, senza humor, trascinandoci in un gorgo sconnesso di pedanti e tediose elucubrazioni. L’avesse fatto per divertirsi passi pure, ciò che risulta odioso è che si nasconde dietro una pretesa intellettuale per avere carta bianca e sciorinare i suoi insensati deliri. Che farebbe meglio a raccontare ad uno psichiatra invece che a un pubblico. Perché Lynch non sublima affatto la sua follia in arte, non supplisce l’irrazionalit‡ con la fantasia, riesce solo ad ammorbare con una noia letale oltre che con un racconto sconclusionato. Ed irrita che, se il film l’avesse girato un qualunque esordiente, gli avrebbero dato del pazzo e tutto sarebbe finito lì, per il nome di Lynch c’è invece un rispetto reverenziale e si cerca di sviscerare le tematiche della sua “poetica” quando Ë chiaro che si concede il lusso di accostare le scene a casaccio per poi farsi interpretare, pretendo cosÏ di essere ermetico.
Si comincia con una donna che guarda in uno schermo, appaiono dei tizi con grosse teste di coniglio che sembrerebbero protagonisti di una sit com, poi una vecchietta inquietante e rifatta va a casa di un’attrice e comincia a vaneggiare su ieri che forse è domani e su debiti insoluti. L’attrice va sul set, diretta da un Jeremy Irons orribilmente sopra le righe, che le racconta che anni prima si stava girando lo stesso film ma i protagonisti furono uccisi. Bene, pensiamo, succederà qualcosa di intrigante, anche perché l’attrice sta vivendo la stessa pericolosa storia del film. Invece ecco che oltrepassa una porta e vede quello che era successo due giorni prima. Seguono altre due interminabili ore di delirio a briglia sciolta in cui cambiano personaggi, luoghi, arredi, nomi, vicende, compaiono puttane, ricompaiono anche ripetutamente i Conigli e quando gli spettatori proprio non ce la stanno facendo più ecco che la nostra protagonista viene uccisa con un cacciavite e va a morire in mezzo ai barboni che dissertano a lungo su un autobus che va a Pomona mentre lei agonizza. Ma siamo ancora sul set, lei si rialza e vede se stessa dentro uno schermo e a sua volta è guardata. Il genio sta cercando di dirci qualcosa su realtà e finzione, che stiamo vivendo vite diverse in universi paralleli, una vita dentro nell’altra, o qualcosa del genere. Di fatto è riuscito solo ad esasperare. Non ha nemmeno divertito con i nonsense, non ha creato nessuna suspence, non ha costruito nessun puzzle perchÈ i pezzi non si incastrano essendo ritagliati a casaccio. Ha voluto fare un film sul mistero. L’unico mistero è come gli consentano ancora di continuare a girarne.
Voto: 0
Gabriella Aguzzi
E' pesante.
Di che materiale è fatto?"
"Della materia di
cui sono fatti i sogni"
INLAND EMPIRE,
l'ultimo capolavoro di David Lynch, è insieme una
riflessione gnoseologica sulla dicotomia
verità/finzione nell'arte e un viaggio visionario
in quell' "Impero della Mente" che i distributori
italiani hanno voluto apporre come sottotitolo
esplicativo, sorta di vademecum dell'ultimo minuto
per lo spettatore che, spaesato, s'appresta a
entrare nelle sale. Ed è inoltre, in un certo qual
modo, l'opera maxima del regista di Missoula: dopo
aver tratteggiato gli incubi, le ossessioni e i
desideri di un mondo dal "cuore selvaggio e la
mente impazzita", David Lynch si è addentrato -
con l'abilità immaginifica dei "vecchi"
surrealisti - nelle caverne morbose dell'anima,
mostrandoci - nel quadrittico perfetto formato da
Strade perdute, Una storia vera, Mulholland Drive
e INLAND EMPIRE - di che materia è fatto l'essere
umano, i suoi sogni, le sue menzogne, i suoi
amori, i suoi incubi: Ecce Homo!
Si è molto
discusso sull'uso del digitale e l'abbandono della
pellicola cinematografica e, prima della visione
del film, molti erano i dubbi circa la qualità
dell'immagine, del suono e della composizione
filmica. Tuttavia, a risultato concluso, si può
ben dire che anche in questo campo Lynch si è
dimostrato un maestro: avvicinando la camera
digitale ai volti degli attori, in modo quasi
chirurgico, ha escluso il contesto, isolando
questi visi, ora distrutti e disperati ora
raggianti e ridenti, in un primo piamo insieme
nitido e confuso, straniante e tremendamente vero:
come nell'inquietante sequenza iniziale, dove la
porosità sfatta e chioccia della Vicina/Veggente
fa da correlativo oggettivo all'angoscia delle sue
parole. Parimenti, quando la camera apre il suo
occhio al mondo, essa riesce a mostrarci la
nitidezza falsificata dei contorni e dei colori, a
volte così intensi da lasciare storditi. Come
nella sequenza in giardino, quando Piotr riceve i
suoi vecchi amici polacchi, circensi consumati:
l'atmosfera è satura, il cielo è terso e di un
grigio perla quasi irreale, di contro ad un erba
troppo verde; e Nikki, vestita in rosa-shocking di
sicuro cattivo gusto, chiede e a due prostitute
sedute sull'erba - geniale metafora dello
spettatore cinematografico abituale, così uso,
ormai, a film "usa e getta" - se l'hanno già
vista. Piotr, disturbato dalla scena, si versa dal
ketchup sulla maglia bianca: ma il rosso del
condimento, diventa il cremisi del sangue e tutti
i presenti reagiscono a quel colore così forte,
così intenso, con timore e sconcerto. E' lo
sguardo meravigliato - dell'uomo, dello
spettatore, dell'attore - di fronte alle irrealtà
della vita: è, come sempre in Lynch, quell'abilità
magistrale nel rendere straordinario
l'ordinario.
E' sull'onda di questo sfasamento
percettivo, di questo "deragliare dei sensi", che
INLAND EMPIRE va osservato: quando, alla
conferenza stampa prima della proiezione del film,
in occasione della 63° Mostra del Cinema di
Venezia, i giornalisti hanno chiesto a Lynch se il
film avesse un senso o fosse invece
deliberatamente insensato, il cineasta ha
risposto: "It's supposed to make perfeclty sense".
Ma non è un senso che vada ricercato nella logica
e nella ferrea ricostruzione di una "fabula
persa": l'intreccio di INLAND EMPIRE, continuerà a
sfuggire, effimero e labile come la coda di un
sogno, appena abbiamo aperto gli occhi. Ma se si
guarda il film lasciandosi trasportare
dall'emozione, come ascoltando una partitura
musicale, coi suoi lenti, lentissimi, allegri,
ballabili, cupi, si uscirà dal buio della sala in
qualche modo "confusamente illuminati" dal
magistrale artwork lynchiano, che è insieme il suo
lavoro più sperimentale e più riuscito: a fianco
di Nikki Grace (una Laura Dern mai così
magistrale), cammina il Fuoco.
Ma se anche si
volesse cercare, a tutti i costi, una spiegazione
razionale, ascoltando con attenzione soprattutto
la colonna sonora, si potrebbe quasi arrivare a
sfiorare un nocciolo di verità. Che INLAND EMPIRE,
forse, non è un film: è un'intera legione di film,
incastrati l'uno nell'altro, impastati assieme con
la materia di cui sono fatti i
sogni.
Voto: 10
Andrea Morstabilini