Il buio nell'anima

16/05/2008

di Neil Jordan
con: Jodie Foster,Terrence Howard

Iniziamo con un parallelo azzardato: in una scena del film di Neil Jordan, negli studi di una radio privata newyorkese, Erica Bain (Jodie Foster) parla con la sua datrice di lavoro alle cui spalle si intravede il Dvd di Django, western crepuscolare di Sergio Corbucci del 1966. Anche quella, una storia di vendetta, benché ambientata in Messico e in tutt’altra epoca, col protagonista (un grande Franco Nero) a vagare per il paese dopo che la sua amata Mercedes è stata uccisa dal maggiore sudista Jackson. Django è un’anima in pena, che si fa largo in un mondo dominato dalla violenza, in cui la distinzione buoni/cattivi sembra scomparsa, e in cui la vendetta e la rivalità sono rimasti gli unici valori; a fare da sfondo alle vicende, un’ambientazione desolata e un’atmosfera cupissima.
Fatti i dovuti distinguo, ravvediamo più di un’analogia con la storia di Erica narrata da Jordan. Anche lei è un personaggio che, dopo la barbara uccisione del fidanzato – a un passo dalle nozze – ad opera di un gruppo di delinquenti, si trova a varcare la linea (divenuta sempre più sfumata) tra il bene e il male in una città, la sua amata New York, trasformatasi improvvisamente in un luogo di sperdimento; un posto in cui il ricorso alla violenza di cui lei stessa è stata vittima le appare l’unico rimedio alle ingiustizie all’ordine del giorno. La metropoli – quasi irriconoscibile, data la mancanza di inquadrature che ce la facciano riconoscere come, per dire, la città tanto cara a Woody Allen – viene così attraversata di notte, e svelata nei suoi aspetti più sordidi, man mano che la protagonista si mette in cerca di criminali da eliminare. In cerca di un risarcimento per il danno subito, per la vita e l’affettività che le sono state strappate; tutto questo per sfogare la rabbia, e provare a combattere l’insopportabile sensazione di vulnerabilità e di vuoto che adesso albergano in lei. Erica diviene una sorta di pistolera, come il cowboy interpretato da Franco Nero, che scopre la facilità con cui si può togliere la vita: la linea sottile tra sottomissione e sopraffazione, giocata sul possesso e sull’uso di una calibro 9. E soprattutto, sebbene tra dubbi più o meno laceranti, che scopre il gusto della vendetta e l’ebbrezza della sensazione di potere suscitata dall’omicidio. Nel 1956, Johnny Cash cantava in Folsom Prison Blues “I shot a man in Reno just to watch him die”, e la condizione della Bain si avvicina pericolosamente a quella descritta dal musicista americano. La Foster trasmette meravigliosamente il senso di vertigine vissuto dalla protagonista, e le sue peregrinazioni notturne ricordano quelle disperate del serial killer impersonato da un magistrale Joe Spinell nel Maniac di William Lustig (1980): un’anima in pena anche quella, prigioniera della compulsione a uccidere e della coazione a ripetere l’atto. Certo, la Bain non è una psicopatica, ed è spinta al crimine dai torti subiti come vittima, ma la legittimità delle sue azioni fa presto sorgere qualche perplessità nello spettatore. E qui lo script rivela tutta la sua solidità e il coraggio nella negazione di una qualsiasi presa di posizione didascalica, rappresentando il Bene e il Male come due realtà distinte ma, in alcuni casi, assolutamente inscindibili. .

Voto: 8

Andrea Salacone