
Iniziamo con un parallelo azzardato: in una scena del film di Neil Jordan, negli
studi di una radio privata newyorkese, Erica Bain (Jodie Foster) parla con la
sua datrice di lavoro alle cui spalle si intravede il Dvd di Django, western
crepuscolare di Sergio Corbucci del 1966. Anche quella, una storia di vendetta,
benché ambientata in Messico e in tutt’altra epoca, col protagonista (un grande
Franco Nero) a vagare per il paese dopo che la sua amata Mercedes è stata uccisa
dal maggiore sudista Jackson. Django è un’anima in pena, che si fa largo in un
mondo dominato dalla violenza, in cui la distinzione buoni/cattivi sembra
scomparsa, e in cui la vendetta e la rivalità sono rimasti gli unici valori; a
fare da sfondo alle vicende, un’ambientazione desolata e un’atmosfera cupissima.
Fatti i dovuti distinguo, ravvediamo più di un’analogia con la storia di
Erica narrata da Jordan. Anche lei è un personaggio che, dopo la barbara
uccisione del fidanzato – a un passo dalle nozze – ad opera di un gruppo di
delinquenti, si trova a varcare la linea (divenuta sempre più sfumata) tra il
bene e il male in una città, la sua amata New York, trasformatasi
improvvisamente in un luogo di sperdimento; un posto in cui il ricorso alla
violenza di cui lei stessa è stata vittima le appare l’unico rimedio alle
ingiustizie all’ordine del giorno. La metropoli – quasi irriconoscibile, data la
mancanza di inquadrature che ce la facciano riconoscere come, per dire, la città
tanto cara a Woody Allen – viene così attraversata di notte, e svelata nei suoi
aspetti più sordidi, man mano che la protagonista si mette in cerca di criminali
da eliminare. In cerca di un risarcimento per il danno subito, per la vita e
l’affettività che le sono state strappate; tutto questo per sfogare la rabbia, e
provare a combattere l’insopportabile sensazione di vulnerabilità e di vuoto che
adesso albergano in lei. Erica diviene una sorta di pistolera, come il cowboy
interpretato da Franco Nero, che scopre la facilità con cui si può togliere la
vita: la linea sottile tra sottomissione e sopraffazione, giocata sul possesso e
sull’uso di una calibro 9. E soprattutto, sebbene tra dubbi più o meno
laceranti, che scopre il gusto della vendetta e l’ebbrezza della sensazione di
potere suscitata dall’omicidio. Nel 1956, Johnny Cash cantava in Folsom Prison
Blues “I shot a man in Reno just to watch him die”, e la condizione della Bain
si avvicina pericolosamente a quella descritta dal musicista americano. La
Foster trasmette meravigliosamente il senso di vertigine vissuto dalla
protagonista, e le sue peregrinazioni notturne ricordano quelle disperate del
serial killer impersonato da un magistrale Joe Spinell nel Maniac di William
Lustig (1980): un’anima in pena anche quella, prigioniera della compulsione a
uccidere e della coazione a ripetere l’atto. Certo, la Bain non è una
psicopatica, ed è spinta al crimine dai torti subiti come vittima, ma la
legittimità delle sue azioni fa presto sorgere qualche perplessità nello
spettatore. E qui lo script rivela tutta la sua solidità e il coraggio nella
negazione di una qualsiasi presa di posizione didascalica, rappresentando il
Bene e il Male come due realtà distinte ma, in alcuni casi, assolutamente
inscindibili. .
Voto: 8
Andrea Salacone