Viaggiare per sopravvivere. Lo sanno bene i mercanti e tutti coloro che cercano un "Altrove", molto spesso per fuggire dalla vacuità, inconsistenza interna e mancato ancoraggio alle proprie radici sociali, etniche e culturali. Fuga che riguarda, in modo particolare, gli "sradicati" con una doppia vita in cui i segreti della prima sono custoditi all'interno di una valigia rigida, vecchia di tre quarti di secolo, conservata in una soffitta angusta e buia. Nel film "L'Ultimo Viaggio" di Nick Baker Monteys si parte dal vecchio baule il cui proprietario, ultranovantenne, rimasto solo improvvisamente per la morte inattesa di sua moglie (lui, Eduard Leander, che le chiude gli occhi senza versare una lacrima né emozione apparente) fruga nei ricordi dell'altra vita decidendo di riappropriarsene. Mentre la figlia, proprietaria di un ristorante e, quindi non in grado di curarsi del padre anziano, si prepara a portarlo all'ospizio, Eduard esce di casa da solo e si reca alla stazione ferroviaria, destinazione Kiev.
Su ordine perentorio della madre Uli, la figlia Adele insegue il nonno per portarlo indietro ma rimane intrappolata sullo stesso treno, costretta suo malgrado a transitare per la finestra spaziotemporale dell'anziano Eduard, in compagnia di Lew, un altro giovane straordinario: miscela inscindibile di russo e ucraino, ribelle ma non troppo, ostinatamente legato alle radici familiari e all'identità duale della sua terra con doppia anima. Inizia così uno straordinario, intenso, emozionante e lungo viaggio (per di più senza passaporto nel caso di Adele) in terre inquiete, come l'Ucraina agli inizi della guerra civile del 2014, in cui i lealisti governativi si scontrano con i separatisti filorussi. Nonno e nipote vivranno questa lacerazione come una spina avvelenata nel fianco della stessa famiglia di Lew che li ha momentaneamente ospitati, in cui addirittura due fratelli molto uniti si ritroveranno drammaticamente dalla parte opposta della barricata.
Concepita come un puzzle di anime, sentimenti ed eventi imprevedibili, la narrazione di una storia individuale si infila in una galleria buia e intensa sotto i cunicoli del Dio Kronos, come un treno che va sempre più veloce, incontrando dapprima sui vagoni un Est lontano, con la sua gioventù un po' sopra le righe e il ritorno appena accennato del volto dell'autoritarismo, con le sue divise mimetiche e i controlli di confine, a cui la gente di Berlino Est, tuttavia, è abituata fin dalla nascita essendo da sempre una porta metaforica, umana, militare e culturale, sull'Europa slava. Adele diviene così, suo malgrado, l'esploratrice involontaria di verità familiari da sempre nascoste e ignote a tutte loro, nonna, madre e nipote. Ricordi tempestosi che abitano lontanissimi, lì nel cuore lontano dell'Unione Sovietica in cui nel 1944 i cosacchi russi scelgono il campo dell'invasore nazista, per ribellarsi alla persecuzione di cui sono stati vittime, come le "Guardie Bianche" zariste, dopo la presa di potere nel 1917 da parte dei bolscevichi.
Qui è la Storia con la "S" maiuscola a mangiarci vivi simbolicamente. Quella che trita colpevoli e innocenti macerando nella stessa sofferenza le ragioni degli uni e i torti degli altri. Perché, bisogna trovarcisi per capire che, nella rotta della ritirata, non si possono sfamare e controllare i prigionieri di guerra, né tantomeno liberarli per restituire così braccia e divise all'odiato nemico. Dare l'ordine di eliminarli è un crimine di guerra? Sì, per la convenzione di Ginevra. Ma chi l'ha eseguito era disperato come il suo comandante. Aveva anche lui qualcosa da difendere: una donna, i suoi figli, amici e parenti che sarebbero stati fucilati (come poi effettivamente accadde) dai sovietici vittoriosi guidati propri da quei prigionieri desiderosi di vendetta.
Che effetto fa accarezzare un volto che non si è mai conosciuto in settanta anni; vedere i suoi figli e nipoti; udire il nome di Svetlana ereditato dall'anziana figlia, lo stesso di sua madre, donna amatissima e poi perduta che né i lager staliniani, né la nuova famiglia berlinese avevano mai potuto cancellare? Perché questo è il film: ritrovato quel passato che ostruisce le vene e non ti fa respirare né vivere le gioie della vita; ritrovate dopo un lungo calvario quelle persone pur nostre, che vengono da noi e portano gli stessi geni ma che non abbiamo mai conosciuto; ecco che tutto ci appare più chiaro e nitido. Cosicché il tempo presente riceve la sua sacrosanta legittimazione, poiché è l'unico che abbiamo veramente vissuto. Improvvisamente, riconosciamo che il luogo vero, autentico degli affetti è rappresentato da chi, figlia e nipote, ci ha sempre amato fin dalla loro nascita, che pur è dipesa da noi, dalle nostre scelte e dalla nostra volontà. A volte, il passato e il tempo trascorso è meglio lasciarli scivolare come una feluca da cosacco lungo la corrente di un fiume ignoto, sornione e complice.
Voto: 9
Maurizio Bonanni