Charley Thompson
30/03/2018
di Andrew Haigh
con: Charlie Plummer, Steve Buscemi, Chloë Sevigny, Travis Fimmel
Adattamento del terzo romanzo di Willy Vlautin, “Lean on Pete” (per il mercato italiano, “La ballata di Charley Thompson”, Mondadori, 2014), il film di Haigh è stato lodato dalla critica con paragoni azzardati in cui si è tirato in ballo Mark Twain.
Basterebbe aver letto veramente i due celebri romanzi di seconda metà Ottocento chiamati in causa, “Le avventure di Tom Sawyer” e “Le avventure di Huckleberry Finn”, per rilevare una differenza cruciale: l’assoluta mancanza, nella pellicola di Haigh, dell’ironia e del vitalismo che caratterizzavano tali opere.
Il peregrinare del protagonista, Charley, è di ben altra natura rispetto a quello picaresco di Sawyer e Finn. Egli appartiene a un microcosmo di esistenze grigie ai margini dell’America “che conta”, e, spinto dal bisogno, si avventura in ambienti e realtà segnate da desolazione e squallore, in cui il confine tra lecito e illecito è divenuto labile o indistinguibile.
La storia è drammatica, i puntelli a cui appigliarsi spesso franano. Al povero Charley vanno tutte storte, e il pessimismo che permea la narrazione richiama alla mente le disgrazie e le erranze della Tess di Thomas Hardy, eroina ottocentesca a cui la sorte ha girato le spalle.
Ecco, forse, un difetto da evidenziare in un film che di certo lascia il segno: l’insistere caparbiamente sulle sventure, sullo smarrimento, su un’umanità spesso incapace di un briciolo di empatia, anche se rimane sempre il barlume di speranza che consente al ragazzo di non darsi per vinto (raggiungere l’adorata zia Mary nel Wyoming – ma vivrà davvero lì? – per iniziare una nuova vita).
Vlautin, frontman dei Richmond Fontaine, apprezzato complesso “alternative country” dell’Oregon, ha mosso i primi passi in ambito discografico nella seconda metà degli anni Novanta; nello stesso periodo, il collega Bill Callahan nel mini-lp “degli” Smog “Burning Kingdom” cantava “I’m crawling through the desert / without water or love”. Destino condiviso dal giovane protagonista dell’opera di Haigh, e desolazione come cifra stilistica che a volte può diventare opprimente. Da questo punto di vista, la regia è estremamente funzionale all’intreccio narrativo, con i suoi toni dimessi e la macchina da presa che indugia sui volti e sugli ambienti.
Uno sguardo intenso e dolente su “un’altra America”, magari un po’ troppo compiaciuto nel ritrarne il malessere e il disagio, ma che, e ci ripetiamo, non potrà lasciarvi indifferenti.
Voto: 8
Andrea Salacone