
Sì; è vero - sono nervosissimo, spaventevolmente nervoso - e lo sono stato sempre; ma perché volete pretendere ch'io sia pazzo?
Colpe passate fanno impazzire, come nel celebre racconto breve di Edgar Allan Poe Il cuore rivelatore, da cui è tratto l’incipit che apre questa dissertazione su 1945, film storico del regista ungherese Ferenc Török incentrato sul panico (non trovo concetto più calzante) che l’arrivo di una coppia d’ebrei di ritorno dai campi di sterminio nazisti, recentemente scoperti e smantellati dall’armata rossa, provoca in un villaggio ungherese ancora abitato dai fantasmi infamati delle vittime del più spaventoso conflitto che storia umana ricordi.
Il canovaccio è tratto da Hazatérés (Homecoming, ossia “Ritorno a casa”), dieci pagine di un altro racconto breve a opera di Gábor Szántó, ricercatore e insegnante di Letteratura moderna ebraica, nonché autore e sceneggiatore del film.
La critica ungherese ha cesellato con parole significative l’eterno ritorno degli spettri di un passato sporco di sangue: il settimanale HVG afferma che “il peso della memoria calpesta le generazioni successive […]. Finché non saremo in grado di parlare del passato, continueremo a trasmettere le nostre paure generate da pensieri non elaborati”. Quel che accade tuttora in Francia, stravolta troppo spesso da attentati di matrice islamica che hanno a che fare più col passato coloniale del Paese in Africa e con una sorta di revanscismo alla rovescia, piuttosto che con la Jihad o il Corano.
La pellicola, uscita lo scorso anno, ha collezionato numerosi premi in concorsi e festival di tutto il mondo grazie all’originalità con cui affronta il tema ormai trito della sciagura occorsa al popolo ebraico durante le persecuzioni scientificamente perpetrate dagli aguzzini tedeschi e da chi li spalleggiò in tutta Europa durante la seconda guerra mondiale. Originalità derivata dal dove, dal quando e dal come della storia. Tutta tesa sul filo di quella che avrebbe dovuto essere una festa di paese, il matrimonio di due giovani: la sposina ci regala una delle scene erotiche più sensuali del cinema contemporaneo, cortissima, col suo amante contadino comunista, mentre lo sposo scappa via dalle menzogne del padre, certificatore di denunce ed espropri ai danni dei deportati del ceppo etnico sbagliato, compreso il suo migliore amico dell’epoca.
Per stessa ammissione del regista, la storia si dipana al ritmo lento, ma incessante degli spaghetti western (“come Mezzogiorno di fuoco”, anche se il titolo citato è un western puro, non nostrano). Effettivamente di quel genere ricorda titoli altrettanto recenti come il remake di Django di Tarantino (uno spaghetti-spaghetti-western!?!), in cui la bara trascinata dal protagonista di diverso fenotipo, colpa ontologica motivante il bando razziale, nel far west ricorda tanto i due bauli di oggetti (dichiaratamente “PROFUMI/TESSUTI/COSMETICI”) trasportati dalla coppia di silenti resilienti reduci, tassativamente “da consegnare” come da comunicazione rilasciata alle autorità appena scesi dal treno a vapore da cui iniziano la loro peregrinazione sacra in quel circondario d’impenitenti (addirittura il sacerdote del paese fa finta di non capire le ammissioni di colpa, ovvero grida di dolore di un avvinazzato gonfio di rimorsi che finisce per impiccarsi).
Il regista Török struttura la storia sullo scheletro delle tragedie greche tentando un’unità d’azione, tempo e luogo che realizza solo parzialmente in quanto le due vicende - greve visita dei correligionari e ritardato pentimento della comunità rurale - procedono non a velocità, quanto a intensità slegate e scomunicanti, non tanto per l’entità dello stravolgimento della vita dei coinvolti, o la profondità del dolore vissuto, ma soprattutto per quanto riguarda la giustizia delle azioni. Tempi volutamente lenti dei rimorsi nascosti a stento dietro tendine ricamate che si scostano a mostrare finestre occhiute, incuriosite, minacciose.
“Questi sopravvivono a tutto!”, “Dio maledica sua madre!”, giochi di carte bollate da beoni. Sudore, tensione, liti. Il vero protagonista è la cattiva coscienza collettiva: palinka, fumo & grettezza. Fumo che ritorna nella scena finale, sbuffato dal treno a vapore che circolarmente chiude il film riportandosi via il suo fardello di dolore, topos dei sommersi bruciati nei forni dai criminali nazisti.
I volti e gli sguardi truci, i pochi rozzi mezzi della campagna ungherese del dopoguerra inquadrati dal bianco e nero della fotografia di Elemér Ragályi risultano così vividi perché il direttore della fotografia era testimone dei fatti, seppur infante all’epoca. Magari quelle fughe, quegli incendi, quei suicidi non erano tanto rari nel movimento tellurico che stravolgeva la società magiara riarrestantesi all’epoca.
Notevole infine la colonna sonora a cura di Tibor Szemzö: solitamente ci si aspetterebbe una raccolta di canzoni, composizioni nel migliore dei casi, mentre l’autore in questo caso intende costruire un’atmosfera e contribuisce in pieno a instaurare il tenore drammatico del solenne incedere dei fatti.
La pellicola è stata finanziata dal fondo nazionale cinematografico ungherese…I soldati comunisti russi sono figurati generalmente come ladri e/o teppisti, mezzuccio che avrà vellicato la pancia di qualche burocrate atto a sganciar fondi. Viene da chiedersi perché allora le tasse dei cittadini vessati dalla dittatura di Viktor Orbán dovrebbero servire pure a issare inutili muri atti a fermare i sogni di salvezza di altri popoli vessati oggigiorno. Ogni giorno.
Voto: 6
Fabio Giagnoni