Suspiria

27/12/2018

di Luca Guadagnino
con: Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth, Lutz Ebersdorf, Jessica Harper, Chloë Grace Moretz

Nel romanzo dell’irlandese Laurence Sterne “La vita e le opinioni di Tristram Shandy”, pubblicato nella seconda metà del Settecento, il protagonista entra in scena solo nel quarto volume (in tutto sono nove) per poi uscirne inaspettatamente nel sesto, senza aver manifestato alcuna opinione. La rilettura di “Suspiria” realizzata da Guadagnino ci presenta una situazione analoga: l’opera di Dario Argento, sebbene citata, è di fatto quasi assente.
Il regista ha preso spunto dal film del 1977 in maniera così personale che le componenti essenziali di quella pellicola sono scomparse. Il tema della stregoneria è ripreso, ma appare quasi un orpello. La visionarietà del décor ha lasciato il posto a una meticolosa ricostruzione di interni ed esterni dal colore livido. Per l’ambientazione mitteleuropea, Friburgo, città universitaria nella Foresta Nera, è stata cassata a favore della più rappresentativa Berlino: espediente che permette a Guadagnino di offrire un sintetico ritratto dell’atmosfera tetra e oppressiva degli anni di piombo.
Problema: lo spettatore che ha pagato il biglietto, incuriosito, si presuppone, dall’idea di una reinterpretazione di un film che probabilmente conosce già molto bene (insomma, verosimilmente, una persona che non disprezza i generi thriller e horror) si trova precipitato in un lungometraggio – e sottolineiamo il “lungo”, perché “Suspiria” dura due ore e mezza – alla Margarethe von Trotta senza comprendere la ragione di una scelta così arbitraria.
Qualcuno, ovviamente, andrà in visibilio per la ricostruzione di un’epoca così travagliata, per i pregi formali del film (movimenti di macchina, ecc.), e per l’originalità del remake. Altri storceranno il naso per l’impianto stesso dell’operazione, e, tra uno sbadiglio e l’altro, si domanderanno inutilmente il motivo dell’innesto di un’ultima parte squisitamente “gore” (per disturbare i palati meno avvezzi alle scene sanguinolente?) in una narrazione che, compiaciuta della propria lentezza “autoriale”, sembra perseguire obiettivi assai diversi dal creare tensione e raccapriccio. A chi scrive sfugge il senso di un film del genere, ma rimane la certezza che non avrebbe dovuto intitolarsi “Suspiria”.

Voto: 5

Andrea Salacone

Utilizzando come mero palinsesto l'originale argentiano, Luca Guadagnino trasforma una febbricitante favola gotica, illuminata da una vena anarchica ai limiti del nonsense, in una pretestuosa quanto vacua riflessione sul femminile. Piuttosto che al "Suspiria de Profundis" di Thomas de Quincey, sublime vaneggiamento oppiaceo, o al Propp virato al nero di Dario Argento, il regista palermitano guarda agli anni di piombo, ambientando il suo "Suspiria" in una Berlino ancora divisa in due, nella quale gli echi e le memorie del nazismo si intrecciano ai movimenti studenteschi del 1977 e al terrorismo della Baader-Meinhof. Assai coerentemente, si accantonano i languori Jugendstil e i pavoni Art Nouveau dell'originale, per lasciare spazio a monolitiche architetture alla Albert Speer (ma e' Varese) o alle opprimenti turpitudini dell'edilizia socialista, che richiamano entrambe la cupezza dei totalitarismi passati. Questa plumbea "Germania in autunno", con buona pace dei Fassbinder, dei Kluge e degli Schlöndorff dell'omonimo film collettaneo, appare però irrimediabilmente posticcia. Le notizie sgranate come una macabra litania da radio e telegiornali, il sequestro di Hanns-Martin Schleyer, il dirottamento ad opera dei militanti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina del volo Lufthansa, il presunto "suicidio" a Stammheim dei membri della Rote Armee Fraktion, rimangono del tutto estranee alla vicenda narrata, un pretenzioso diorama che offre una contestualizzazione storica velleitaria quanto strumentale. Quando poi lo sceneggiatore David Kajganich (A Bigger Splash) tira in ballo anche i Mennoniti dell'Ohio, il nazismo e la Shoah, si rende indigeribile un piatto composto da ingredienti fin troppo eterogenei.
Lo "scriptio superior" del suddetto palinsesto funziona invece sul piano estetico, almeno sino all'insidioso redde rationem, in bilico tra lo sberleffo camp (gli occhiali da sole di Helena Markos) e il Grand Guignol della scatenata Totentanz finale. Nella sua messa in scena delle arcane nefandezze che si susseguono nella sede della Markos Tanz Company, Guadagnino si ispira sia alla performance art (Carolee Schneemann) che al Tanztheater di Pina Bausch, modello principe per il personaggio di Madame Blanc, cannibalizzando così trent'anni di teatrodanza e di arte contemporanea. Questo gli consente di imbastire qualche sequenza memorabile (la danza di Dakota Johnson/Susie Bannon in montaggio alternato con la disarticolazione di Olga), gli estenuanti esercizi imposti alle allieve da Madame Blanc, o la luttuosa messa in scena dello spettacolo "Volk", titolo che richiama i teorici völkisch del nazionalsocialismo.
Ossa spezzate, sangue e liquidi organici, cantano l'orrore e la fascinazione del femminile ma, a parte la visione del corpo femminile come corpo "resistente" in senso politico, si continua a girare intorno all'archetipo junghiano della Grande Madre, a volte riproposto con ironia, come nel motto leziosamente cucito a mano nella casa natale di Susie Bannon (Una madre è una donna che può sostituire tutti. Ma che è insostituibile), a volte esorcizzato in una catarsi splatter virata al rosso, anche se questa inedita Mater Suspiriorum può essere compassionevole.
Dopo il Bertolucci di "Call me by your name", Guadagnino prende a modello il cinema di Fassbinder, ma se la crudeltà del regista tedesco era motivata da una spietata disamina dei rapporti di potere tra i suoi personaggi e da un feroce scavo psicologico, qui si preferisce limitarsi a riproporne le atmosfere. L'ambizione di "Suspiria" al kammerspiel fassbinderiano, sia nella disamina dei contrasti interni tra le sostenitrici di Madame Blanc e quelle di Helena Markos, che nell'analisi dei rapporti tra allieve e insegnanti, si appoggia però sulle fragili fondamenta di dialoghi non troppo ispirati o addirittura ovvi ("Dobbiamo spaccare la faccia alla bellezza"), mentre l'ingombrante sottotrama che riguarda le indagini del dottor Klemperer, tormentato dal senso di colpa per la scomparsa della moglie Anke, fa deragliare il film dai binari. Grazie alla cura viscontiana delle scenografie di Inbal Weinberg e alla fotografia di Sayombhu Mukdeeprom (direttore della fotografia di Apichatpong Weerasethakul), che sceglie una palette autunnale di marroni, ocra e verdi marcescenti, il risultato rammenta piú un set fotografico per una rivista di moda ispirato al Junger Deutscher Film, che "Le lacrime amare di Petra von Kant".
Una superba Tilda Swinton, sacra Trimurti, domina il film interpretando Madame Blanc,  mangiandosi Dakota Johnson a colazione, mentre si apprezzano il ritorno di Ingrid Caven e Angela Winkler e un cameo di Jessica Harper.
Menzione d'onore a Guadagnino per il coraggio dimostrato, soprattutto nel suo muoversi al di fuori delle logiche un po' asfittiche del cinema italiano. Anche se, per quanto riguarda il suo futuro, tutto dipenderà dal regista che deciderà di omaggiare la prossima volta.

Voto: 6

Nicola Picchi