
Premetto che questa recensione sarà, più che mai, una voce fuori dal coro. Il film “Van Gogh- Sulla soglia dell'eternità “ di Julian Schnabel non mi è piaciuto, intendendo, con questo commento, depotenziato, da troppi anni, della sua urgente forza espressiva e ridotto ad un banale ed ininfluente “like-dislike”, che, in occasione della proiezione ufficiale per la stampa, ho provato molta difficoltà a concentrarmi. Il rischio di distrazione era elevatissimo e dovuto ad evidenti ed oggettivi scelte inadeguate sul piano registico. Scrivere e dirigere un film biografico (anche se non etichettato come tale) è sempre rischioso, soprattutto se il soggetto scelto per illustrarne (e non raccontarne) la vita ha per nome Vincent Van-Gogh. Un pittore autentico, un uomo ed un artista che in vita e in morte ha rivoluzionato più o meno consapevolmente, nella sua epoca, la storia dell'Arte e della civiltà umana a lui seguita. Dopo di lui, tutto è mutato e noi, da circa duecento anni, gli siamo debitori per averci insegnato a vedere davvero nella nostra mente sempre più insana. Per dirla con le parole del pittore contemporaneo Ennio Calabria, un uomo che ha fatto dell' ”Arte, l'eccellenza della soggettività, in antitesi con il pensiero unico”. Chi mi leggerà sa che sto affermando il vero e la terminologia adoperata è fin troppo riduttiva per descrivere la portata del fenomeno. In soccorso alla seguente analisi, ribadisco “aspra e forte” convoco pertanto altri due film usciti in sala da poche settimane incentrati su vite altrui stra-ordinarie a modo loro.
La prima pellicola è “Bohemian Rhapsody” e la seconda è “The Bookshop”: entrambe si fondano sui loro protagonisti, Freddie Mercury e Florence Green ( a sua volta personaggio inesistente fuoriuscito da un romanzo di Penelope Filtzgerald del 1987), cioè sulle loro vicende individuali e collettive all'interno di una comunità artistica eterogenea in fatto di gusti, cultura ed educazione, ma soprattutto su una passione (la musica e la lettura) assurta a mestiere di cui vivere. Vedendoli anzi cibandomi di essi, non ho provato alcun disagio nel gestire le mie emozioni abituando, pian piano gli occhi e il cuore, senza alcuna costrizione, agli attori che interpretavano rispettivamente un'icona divina, davvero esistita ed una donna simbioticamente legata ai libri come lo sono io, priva di un volto ed un corpo reali, essendo nata prima come personaggio di fantasia.
Nel caso, invece dell' ultimo lavoro di Julian Schnabel, non mi è ancora chiaro cosa abbia voluto realizzare; se il progetto magari “perfetto”, in termini tecnici, abbia smarrito le sue coordinate iniziali, venendo salvato solamente dalla magnifica ed indiscutibile interpretazione di Willem Defoe nei panni laceri di Vincent Van Gogh. Non a caso, alla settantacinquesima mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, Dafoe si è aggiudicato la meritatissima Coppa Volpi quale premio come migliore attore e ha ricevuto una nomination ai Golden Globe Awards per la sezione “miglior attore in un film drammatico”. Dafoe è Vincent Van Gogh in tutto: il volto, in primis, rugoso come se “arato”, con una lucida violenza perpetuata più e più volte, dalla punta di un pennello, (lo stesso che intinto nel rosso del rame e nell'oro della paglia ha dato un senso estetico inequivocabile a quella raffia di cui son tessuti i suoi capelli), respira sempre ansimando, parimenti ad un animale spaventato, ferito,terrorizzato e traduce il tormento e l'estasi di un' instancabile ricerca o di una disperata follia espressiva senza fine. Neanche dopo la morte. Poi vi sono il collo, le mani, i piedi dalle dita sempre sporche, i vestiti laceri e inadeguati, il cappello di paglia ritornato nel mondo dopo il soggiorno sulle tele di ben noti quadri, il torso magro e smunto come il resto del corpo ecc...Potrei continuare nell'elencare, in forma di elogio, tutti gli elementi che consentono di identificare il personaggio storico nell'attore scelto ad interpretarlo, ma in discussione, insisto, non è la bravura o meno di Defoe. Accuso il colpo dell'inefficacia di un film di finzione più prossimo allo stile pericoloso del “ mockumentary” anche perché girato con una macchina da presa digitale.
La vicenda personale ed artistica di Vincent Van Gogh è fin troppo conosciuta o forse ancora ignota, nei particolari più determinanti, per venir filmata con un piglio sperimentale e quasi dilettantistico: il risultato sfocia nell'assenza completa di autonomia stilistico-formale dell'intero film salvato unicamente dal magnetismo randagio della bravura attoriale di Defoe. Willem è Vincent nella misura in cui Atlante è il titano che sostiene sulle spalle la sfera celeste. Tuttavia lo sforzo compiuto non è sufficiente: insegnava Fellini che quando la cinepresa è continuamente mossa con movimenti di macchina incomprensibili, ridondanti o pleonastici, il regista non ha nulla da dire. Mi duole confermare ciò riferendomi, in special modo, alla prima parte del lungometraggio in cui la presa di coscienza, da parte del protagonista di non poter ormai più rimanere presso il luogo natio, di essere diverso dagli altri pittori a lui coevi, per stile ed urgenze, di dover “andare a Sud” per rinascere come uomo e artista sono tradotte da immagini sempre mosse, agitate, frenetiche più disturbanti che originali o esteticamente interessanti. La macchina da presa segue il pennello di Vincent che non è ancora pronto per dipingere, riproducendo in parallelo un doppio tortuoso percorso di frustrazioni vertiginose. La visione duplicata di un' incapacità a “far bene qualcosa” (del pittore) e di un disagio a “farla vedere” (del regista) complica, appunto al quadrato, la fruizione di una buona prima mezz'ora di film dal ritmo tellurico. Il buio è nella mente di Vincent perché vive quotidianamente la sua tragedia: il singolo, l'individuo ( non l' “ognuno”) si pone volente o nolente contro la massa, la folla, la società di sedicenti professionisti e semplici popolani convinti all'unanimità della sua follia e dunque pericolosità.
La regia, quando i soggetti e le storie hanno radici salde in fragilità universalmente riconosciute non può e non deve perder di vista un rigore visivo e narrativo volto, in contrappunto, a condurre per mano, nel labirinto di un'anima in pena, l'ignaro spettatore. Non si tratta di assumere un punto di vista diverso o uguale a quello del protagonista, ma di mostrare qualsiasi oggetto o soggetto inquadrato con chiarezza, accecante e straziante come la luce provenzale che rese incandescenti le membra di Van Gogh sdraiato sull'erba o in un campo di girasoli. Funzionano dunque solamente le sequenze narrative per antonomasia relative alla convivenza folgorante con Gauguin, agli incontri fugaci con il fratello Theo, al dialogo con il prete nel manicomio, mentre vuote di senso risultano le scene di ricerca e fase creativa in cui Van Gogh corre libero nei prati, mangia la terra, assapora il calore benefico dei raggi del sole e poi traduce sulla tela, capolavoro, dopo capolavoro, la maggior parte dei celeberrimi quadri a Sua firma. Si tratta di ipotesi degli sceneggiatori? Si tratta di una realtà documentata? Assistere infatti al gesto di una mano che prende un pennello, lo intinge nei giusti colori sulla tavolozza e dopo alcuni sguardi alla tela bianca dà vita a un paio di scarpe, vasi con girasoli, paesaggi diurni e notturni e avvertire, quasi subito, l'urgenza di andare oltre e vedere altro, implica l'innesco di uno stato di noia preoccupante. Si tratta di scene che hanno quasi la pretesa di esser madri, come quelle in cui anche Gauguin disegna o meglio traccia rumorosamente sulla carta le ultime ombre per rifinire il ritratto della Signorina Ginoux. Nella realtà, però non accade così. Soltanto i veri Artisti lo sanno e di fronte alle mancanze degli attori che non sono pittori o disegnatori o di chi scrive le parti, banalizzando quell'atto creativo fatto sì di genio e sregolatezza, ma frutto del sovvertimento di regole, dogmi e tecniche, altri registi hanno saputo trovare soluzioni più efficaci e meno fuorvianti. Eppure Julian Schnabel è anche un pittore, come lo è il direttore della fotografia di questo film, Benoît Delhomme. Infinite sono le opere dedicate a pittori famosi e spesso sono ben riuscite proprio perché non mostrano quasi mai il protagonista mentre dipinge o non insistono sull'esecuzione di un quadro. Sembra un paradosso, ma i pittori “vivono” oltre a dipingere e, a volte, come insegnano i “cine-pugni” dei film sovietici non mostrare tutto, serve a far vedere tutto.
Nel bookpress messo a disposizione, si apprendono informazioni molto significative sulla genesi del film e sul suo tournage: esse mi inducono a ritenere, come detto sopra , che il vero film su Van Gogh sia ancora da farsi e per il momento si sia di fronte alle prove nebulose, prima di una generale. Schnabel ha dichiarato: “Il ritratto di Van Gogh che emerge dal film deriva direttamente dalle mie reazioni ai suoi quadri, non da quello che è stato scritto su di lui”. Sarebbe dunque bastato intitolare il film “Van Gogh secondo Julian Schnabel” per riavvicinare la pellicola ad un “lavoro di pura immaginazione, un'ode allo spirito artistico e a coloro che hanno convinzioni così assolute da dedicarvi tutta la loro vita” che non si pone “sulla soglia dell'eternità”, né la sfiora essendo personalissima ed intimissima la natura del rapporto tra il regista e il protagonista del suo film. Più simile ad un attimo, ad un soffio, ad un battito d'ali di farfalla fuori dallo scafandro: l'effimero, così partorito, può farsi imperituro, ma soltanto dentro l'utero del proprio genitore.
Questa è forse anche la ragione per cui i dialoghi, a volte, sono folgoranti (Van Gogh, seduto ad un tavolo di una locanda, con straordinaria naturalezza, conversa di teatro, raccontando la trama di “Riccardo III” di William Shakeaspeare lodando il Bardo che non predilige generi e stili letterari, ma sa scrivere di qualsiasi argomento) altre volte, sono banali e prevedibili (Van Gogh confessa all'amico fraterno Gauguin che sta cercando nuova luce e quest'ultimo lo sprona ad andare a Sud).
Magistrale è l'interpretazione di Defoe nel rendere la follia di Van Gogh sia in sanatorio, in occasione dei suoi tre ricoveri, che nel mondo, cioè nella comunità di bifolchi in cui vive e da cui viene costantemente escluso, accusato di orrendi crimini più o meno veri. Dai momenti in cui Van Gogh non è in sé, ma sembra compiere un viaggio extrasensoriale che lo avvicina a Dio, riemerge , risorge, venendo a conoscenza di quanto ha fatto sulla base delle dicerie del popolo: “Dicono che urlo per strada e mi dipingo la faccia per spaventare i bambini, ma io ricordo solo buio e angoscia”. E ancora, confessandosi al fratello Theo: “Ho delle visioni, ma non dirlo ai dottori. Fiori e angeli negli esseri umani che mi parlano, ma non li capisco...quando sono in questo stato, non so cosa può accadere. Potrei anche uccidere”.
Vivida e potente anche la resa nella mimica facciale dei numerosi momenti di lucidità coincidenti con i discorsi sull'arte sempre chiari e puntuali: Defoe ci fa percepire concretamente l'ammirazione e l'amore nutrito da Van Gogh per Frans Hals, Rubens, Velazquez, Veronese, Delacroix che dipingevano velocemente in un unico gesto.
Infine degno di nota è l'incontro tra Van Gogh e il dottor Felix Rey, in occasione dell'ennesimo folle gesto di cui il pittore nulla ricorda: la recisione di un orecchio da donare, anzi sacrificare all'amico Gauguin per evitarne la partenza, temendone un definitivo abbandono. L'attore Vladimir Consigny, classe 1989, oltre a recitare, studia a Parigi presso L'Académie des Beaux Arts, pertanto di disegno e proporzioni se ne intende. Tuttavia nel congedarsi e prescrivere le cure necessarie a Van Gogh, il dottor Rey, disegna sul foglio del suo ricettario un orecchio e il punto di congiunzione di ques'ultimo al volto da cui il pittore lo ha tagliato, per descrivere al fratello Theo cosa è avvenuto, anche per dovizia di particolari anatomici, quasi a ricostruire la “scena del crimine”. Il disegno è oggettivamente mal fatto: dell'orecchio vi è soltanto la forma semicircolare e qualche linea a tracciare un padiglione completamente piatto. Quel disegno per quanto brutto, rappresenta, però agli occhi del mondo il miglior orecchio umano esistente riprodotto, perché ne è artefice un medico (esperto di anatomia). Nessun uomo, all'epoca dei fatti, si sarebbe permesso di evidenziare le imprecisioni: la mano del medico ha reso la somiglianza di un organo in modo perfetto. Van Gogh dipinge, secondo gli Altri e gli Uomini di Dio, cose brutte, che non sembrano appartenere alla realtà Egli, però sostiene che la sua “visione è affine alla realtà più di quello che la gente vede”. Un prete, chiamato a giudicare se possa o meno esser dimesso dalla clinica psichiatrica in cui si trova, tormenta il pittore, pur privo di qualsiasi competenza artistica impostando un vano discorso su Dio, l'Arte e il talento che Van Gogh è convinto gli sia stato donato. Talento, secondo il prete, al contrario, ovviamente inesistente giacché il pittore dipinge soltanto tele “unpleasant”. A pensarla come l'Uomo di Chiesa, vi è una Maestra elementare che in un delirio di onnipotenza, scatena la sua rabbia scolastica e autorizza i suoi allievi a distruggere un quadro che Van Gogh sta realizzando en plein air soltanto perché il soggetto ossia le radici di un albero, non è giudicato “bello” quindi non valido da rappresentare su una tela.
Theo Van Gogh, Gauguin, Pissarro e tanti altri artisti e mecenati erano, per fortuna, convinti del contrario. Van Gogh definendosi un esule, un pellegrino, con molto raziocinio, poteva giungere, senza rischi di blasfemia, a paragonarsi addirittura a Cristo che durante la sua vita e gli anni della predicazione era ignoto ai più esattamente come lui, costretto a vivere in un manicomio, perché respinto dal mondo, di uomini e cose, riprodotti sulle tele affisse nella sua stanzetta di degente.
Da quell'isolamento coatto, dal suo confuso assassinio, dal disprezzo collettivo di incompetenti, Vincent ne usciva “vincente” comprendendo che porsi sulla soglia dell'eternità coincideva con lo stare dinnanzi ad un paesaggio piatto ammirandone la Bellezza immutabile nel tempo a venire o con il prender coscienza che “ un dipinto riuscito porta con sé un bagaglio di distruzione e fallimento”. Nient'altro che il fisiologico mistero irrisolto della Croce, comprensibile unicamente da chi ha saputo portarla e ha creduto nella propria fede, nella propria Arte.
Voto: 6
Mariangela Imbrenda

Un titolo "captive" per attirare il maggior numero di persone possibili, essenzialmente scelto più per marketing che per vera aderenza al profilo artistico\umano del protagonista.
Nonostante l'ottima fotografia, l'interpretazione di spessore di Willem Dafoe e la ben riuscita rappresentazione di quella galassia emotiva che era il pittore, il film non dà l'effetto wow.
Parliamoci chiaro: il film è una spanna sopra rispetto all'offerta attuale nei botteghini per più e più fattori ma devo dire che la lode non è stata raggiunta.
Spezzo una lancia: anche il miglior film, romanzato o meno, incentrato su grandi geni non rende mai giustizia, quindi parte con un forte rallentamento iniziale. Facile è rappresentare super eroi o personaggi analoghi, tutt'altro paio di maniche quando bisogna confrontarsi con giganti di spessore tale come Van Gogh, Da Vinci, Mozart e amici.
Di conseguenza alcuni punti che non mi hanno pienamente convinto: il film è lento nella esposizione della trama. Non tutti i dettagli sono importanti e alcuni, come è successo, possono oscurare quelli veramente fondamentali.
In secondo luogo mi chiedo: era veramente necessario approfondire il rapporto, difficoltoso prima degenerato poi, tra Van Gogh e colleghi pittori? Cos'ha aggiunto alla trama di sensibile oltre al fatto, già noto, che il pittore non era poi l'incarnazione vivente della stabilità psicologica?
Per mia indole avrei speso qualche parola in più sul rapporto col fratello, praticamente dimenticato nel film, e l'infanzia del pittore, cosa che, nella realtà, gli ha permesso di avere una formazione cristiana che sostanzialmente lo accompagnerà tutta l'esistenza sia come visione personale della vita che come motivo interpretativo e chiave di lettura dei suoi quadri. Mi rendo conto che è un argomento enorme, che meriterebbe dodici puntate da due ore l'una, ma è comunque importante approfondire questo tema. Anche perché contenuto nel titolo: se la parola eternità non è legata ad un significato\valore simbolico-religioso a cosa si riduce? Ad un mero fattore fisico chiamato fattore K? Credo non sia sufficiente.
Ottima però, torno a dire, l'interpretazione di Dafoe che in alcuni fotogrammi era identico, foto dell'originale alla mano, al pittore. Ovviamente la somiglianza non è legata alla bravura del trucco e parrucco ma proprio nella mimica che rende giustizia ad un uomo tempestato, e tempestoso, dalle difficoltà della vita e del mondo artistico di quell'epoca.
Piacevolmente colpito poi dalla capacità del regista di sfruttare poche musiche ma ben focalizzate per il momento temporale del film. La pellicola non ha un repertorio di decine e decine di colonne sonore alla "Fantasia 2000" o alla "Morricone"; nonostante questo il trinomio paesaggi incantevoli, musica azzeccata, interprete capace risulta vincente quando il film vuole trasmettere il come l'autore sia arrivato a concepire un'opera; aspetto per niente minimo né banale.
Per tutto questo, e per molto altro, spingo alla visione della pellicola, meglio se introdotta, prima, da una lettura veloce della biografia e da sguardi rapidi, ma focalizzati, sulle opere.
Voto: 7,5
Francesco Cantù

Chi sta "Sulla soglia dell'eternità"? Indubbiamente Van Gogh ha un affaccio di là. Come recita il titolo del film in inglese tradotto fedelmente in italiano, per la regia di Julian Schnabel e la magistrale interpretazione di Willem Dafoe, in uscita nelle sale dal 3 gennaio 2019, "At Eternity Gate" dimostra come alcuni, rarissimi artisti siano un ponte chiaroveggente tra cielo e terra. Ma, forse, molto di più. Riescono a dare colore e segno ai più struggenti movimenti dell'anima, siano essi di perdizione nei fumi dell'assenzio, del tabacco rancido masticato nelle taverne di terz'ordine; nei momenti di requie tra le gambe molto vissute di una prostituta; o nelle pratiche sanguinolente dell'abbandono e del bianco sporco delle camice di forza, ristretti in istituti manicomiali dove regnano sovrani l'ignoranza medicale e i trattamenti inumani e degradanti degli assistenti sanitari. Sadismo, masochismo, obnubilamento della mente che vede il modello fuori standard della pastorella e desidera fissarlo a qualunque costo sulla tela, fosse anche costringendola con la forza in una posa di pace che, come tutte le cose poco comprese, si gira in paura, terrore del diverso per terminare con l'accusa di pazzia per chi le avrebbe, invece, regalato l'immortalità nel colore e nel segno.
Perché, come dice Vincent, il fiore che viene ritratto ha vita breve. Quello che viene dipinto, al contrario, ne trattiene l'anima e l'essenza per l'eternità. E poiché Dio fa anche le cose più sublimi di cui nessuno crede di aver bisogno nell'epoca in cui vive, allora è chiaro che al Suo interprete mortale siano riservati il patimento, la crocifissione, l'ostracismo così come decretati dai contemporanei per punire chi come Vincent affida la mano a Lui per rapirne il soffio di vita, andando oltre le Sue creazioni, scendendo nel più profondo del mistero, in base all'antinomia perdizione-redenzione, scavalcando ogni limite sensoriale conosciuto per provare l'incommensurabile piacere e la visione paradisiaca del trascendente, per cercare poi di trasmetterlo alle generazioni che verranno, come una visione celeste, un immenso Dono di Dio, per l'appunto. Nelle mani di Willem Dafoe, il carattere di Vincent, il suo intenso e breve vissuto, le espressioni scarnificate, sofferenti e disperate del volto assomigliano come cloni alle sculture di Giacometti: opere plastiche di creta sempre in divenire, da ritoccare giorno dopo giorno, in mezzo alle notti insonni o alle tempeste d'amore.
Atti creativi che non hanno né inizio né fine. Opere mai veramente completabili, compibili e del tutto insoddisfacenti, dove manca sempre un tocco, una pennellata. Perché diciamolo: l'Eternità è sempre così mutevole dato il tempo infinito che ha disposizione! Quindi, come si fa a capire la disperazione di Vincent, quel suo testardo, insopprimibile desiderio di voler afferrare con il solo aiuto dell'arte la creazione di Dio attraverso le forze della natura che ci tengono in balia dei capricci di Caos, ci respingono sempre e non voglio mai essere possedute? Fare come lui: aggirarsi e agitarsi da folle, consumando innumerevoli paia di scarpe (di cui ci arriva.. "l'autoritratto"!), in giro per i campi, le radure i boschi. Seguirne gli innumerevoli, instancabili passi con immagini e riprese che fanno l'onda all'erba calpestata, alla terra arida dei girasoli appassiti. Trasferendo all'obbiettivo la sintesi delle sue nevrosi dinamiche attraverso cadenze ravvicinate, persecutorie, ritmate con il movimento degli zaini portadipinti e dei lacci degli scarponi. Bellissime e struggenti le immagini con Theo, un amore fraterno sconfinato senza ragione e tutto sentimento. Come l'amicizia morbosa con Gaugin. Il loro genio innovatore, pesce pilota di una balena spiaggiata dell'impressionismo ormai esausto e di un manierismo classicista senza futuro. Praticamente, un film perfetto.
Voto: 8,5
Maurizio Bonanni