Romolo è pacifico e devoto alla divinità. Remo più che il gemello forte sembra un fratello maggiore, preso dalla responsabilità di proteggerlo. Quando vengono fatti prigionieri dagli Albesi, la loro forza, la loro fede e il loro amore fa sì che si salvino dalla morte e riescano a fuggire con un manipolo di altri schiavi e una vestale. Per giungere a un punto in cui il Tevere può essere guadato, devono però attraversare una foresta ricca di insidie, anche se il pericolo più grande che devono affrontare è quello della superstizione: Romolo ha toccato la vestale, e qualcuno dei seguaci è convinto che porti la maledizione su di loro. Remo riesce a difenderlo, a sfamare gli uomini, a sconfiggere i nemici e si autoproclama Re. Tutto andrebbe per il meglio se non giungessero presagi funesti: un grande regno nascerà, ma solo da un fratello, che ucciderà l’altro. Remo si ribella al destino, e si proclama anche Dio. Ma questa sfida….
Per quanto sembri stupido non “spoilerare” il finale di una leggenda fondatrice della nostra storia, come il regista interpreta l’avveramento della profezia è tutto da scoprire. E da apprezzare. Reduce dall’aver raccontato, nell’insolito e bellissimo “Veloce come il vento”, un altro rapporto di amore-odio tra fratelli, Matteo Rovere affronta la mitologia trasformandola in un’epica tragedia di stile greco, o shakespeariano. Lo fa con una sceneggiatura potente che utilizza dialoghi in protolatino di assoluta efficacia; un’ ambientazione dura, primitiva, immersa in un clima freddo, piovoso, ostile, dove i corpi si confondono nel fango; una splendida fotografia che scava nel buio e si illumina col fuoco; una regia che richiama tutta la poesia e la ferocia del rapporto tra i personaggi: impossibile non pensare al cinema di Mel Gibson o Iñarritu (Borghi addirittura assomiglia al Di Caprio di Revenant).
In mezzo a un cinema italiano anemico, ripetitivo nei toni e nelle trame, incapace di aspirare a qualcosa “oltre”, Il primo Re spicca per la sua bellezza, la sua ricchezza produttiva, il suo coraggio. Raccontare di uomini e Dei, farlo parlando una lingua morta nemmeno più valorizzata dalla scuola, mostrare la violenza in modo così esplicito e così poco compiaciuto, e riuscire ad ottenere successo al botteghino sembrava una sfida impossibile. Invece dà nuova linfa non solo al nostro cinema, ma alla cinematografia europea tutta. Complimenti.
Voto: 8
Elena Aguzzi
Quando si parla di contesto di un film, vi rientra anche a maggior ragione la produzione dello stesso; solo che si tende a parlare di quanto fruibile sullo schermo, in quanto la produzione dovrebbe essere in qualche modo dietro la realizzazione del film stesso, o saltando spesso piè pari financo lateralmente, spesso infatti con notevoli contorsioni per quanto riguarda la promozione.
Detto questo in quanto in questo caso è d'uopo parlare della fase produttiva; viene riferito da più fonti 9 milioni di euro di budget, circa 14 mesi di post e montaggio. E vengono in mente altri numeri, altri riferimenti, tipo la media diversi anni orsono dei (molti e vari) film di Hong Kong sui 5 milioni di dollari, oppure i circa 30 milioni del colossal (dei tempi, 2004) cinese 'HERO'.
E' quindi un bene ed un segnale molto incoraggiante per il cinema italiano che si usino budget elevati, in un altrettanto elevato livello tecnico nella fotografia, nel trucco prostetico, nelle coreografie delle scene.
Quindi, per riallacciarci all'incipit; Il Primo Re è sicuramente e ampiamente un'ottima produzione sotto praticamente tutti i punti di vista. Quant'anche l'insistenza registica sulla figura o a stringere dal mezzo busto in su, salvo rare eccezioni quali la ripresa a piombo col drone nella scena della piena del fiume, tolgano spesso e volentieri aria e spazio alle scene, relegando la vividità della pur ottima fotografia a poche e sparute cartoline, appiattendo la messa in scena e rendendo a volte claustrofobica una violenza già di per sè ben più che evidenziata quanto primaria partecipe della vicenda stessa.
Vicenda che vede personaggi della stessa carta velina che arde tanto fortemente per le passioni indomite mostrate, quanto velocemente lasciando nulla dietro di sè per via appunto della loro sostanza; pur essendoci anche una proto-vestale a custodirne il fuoco.
Non rappresentando poi la pellicola una vicenda ben precisa come incastonata nella storia, non si comprende appieno tutta l'esigenza della ricerca del 'realismo' nella rappresentazione, come più volte rimarcato. Sempre dall'impeccabile produzione. Il cosiddetto proto-latino usato nella lingua della pellicola, poi, non incrementa tanto il 'realismo' quanto alimenta una 'dissonanza' tra azione e parlato. Sono tutte cose che non negano affatto valore alla produzione. Che è elevatissimo.
Ma in sala non ci è andata la produzione.
Com'è quindi il film, allargandoci sempre all'interno del contesto, a riprendere anche il proiettato in sala?
Semplicemente, una montagna ha partorito un topolino.
Voto: 5
Antonio Mannoni