
Escludendo qualsiasi discorso di genere, si potrebbe creare una macrocategoria cinematografica comprendente tutti quei progetti filmici nati per gemmazione dal piccolo schermo: benché non sia poi caso così frequente, per una serie tv, passare nelle sale, è pur vero che molto del cinema hollywoodiano di oggi sembra aver metabolizzato quella che della tv è la caratteristica principale, l’episodicità/serialità, quando non un più diffuso stile di narrazione e d’immagine. In questa macrocategoria, troveremmo allora due correnti ben delineate: da un lato, i prodotti che proseguono il discorso televisivo, senza modificarne forma né contenuto; dall’altro, quelli che ripensano alla propria origine, la destrutturano quindi per ricostruirla. Non stupisce certo che il grosso di questi prodotti ricada nella prima categoria – si pensi a I Simpson – Il film, X-Files – Il film (il sottotitolo sembra quasi d’obbligo), per citarne soltanto un paio –, insieme a tutti quei recuperi tardi (Charlie’s Angels) o remake demenziali (Starsky & Hutch) che sembrano andare oggi per la maggiore. Nella seconda categoria, spiccano – o, forse, sono gli unici? – Fuoco cammina con me di David Lynch e Miami Vice di Michael Mann, non meri sequel/prequel, ma originali riscritture del testo televisivo in testo filmico.
E dopo un simile preambolo, la domanda, posta nello stile autentico di Carrie Bradshaw: «E allora non posso fare a meno di domandarmi: Sex and the City in quale di queste due categorie ricade?». La risposta è tutto, fuorché semplice: se da un lato non si assiste, nelle quasi due ore e mezzo del film, ad un lavoro di riscrittura – la regia è piatta, la fotografia regala qualche guizzo interessante subito annegato in un grigio monotono, il montaggio è quello standard da commedia di serie B –, assistiamo dall’altro ad un'assai interessante (ri)semantizzazione: nel breve spazio delle puntate televisive, Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha continuano ad interrogarsi su sesso, amore, amicizia, uomo, donna, arrivando persino a sfiorare, grazie a sceneggiature brillanti come poche se ne vedono, delicate questioni sociali e (bio)etiche. Sei stagioni, dunque, all’insegna della leggerezza, del glitter, della screwball senza dimenticare un certo tono agrodolce alla Woody Allen.
Eppure nel film entrambe queste caratteristiche spariscono: ci sono, ovviamente, momenti ilari, alcuni persino pecorecci; ovviamente c’è il sesso, parlato, analizzato, visto; altrettanto ovviamente c’è New York: l’appartamento di Carrie, Manolo Blahnik, la 5th, Park Avenue, e via discorrendo. Perché, dunque, non si riconosce nella pellicola lo spirito della serie tv? Perché, grazie a Michael Patrick King – regista senz’altro mediocre –, la sceneggiatura del film ha fatto un passo da gigante rispetto alle proprie radici: e nel mostrare la propria star senza trucco, comunque bravissima la Parker, rivela il grigio, l’opaco sotto il laccato scintillante. È un film ancora più umano di quanto la serie non fosse: anche là c’eran stati pianti, rotture, crisi, depressioni; ma qui il discorso filmico s’arrichisce di una dimensione per forza estranea al medium televisivo: il tempo.
Ogni puntata di una serie vive nel presente assoluto; ogni stagione periodizza una storia ma, alla fine, senza precisi riferimenti temporali a scandirne i capitoli; gli over-archs ne organizzano sì spazi e contenuti, ma quasi mai i tempi. Ciò significa, ad esempio, che nella puntata X Carrie è follemente innamorata di Aidan e in quella Y, immediatamente successiva, il loro rapporto è destinato a finire: le crisi, le emozioni, i percorsi individuali – tutto deve, per necessità, esplodere in trenta minuti solamente. Il film invece può permettersi d’iniziare, prendersi il suo tempo, girare su stesso, involversi – persino, bisogna ammetterlo, scadere lievemente nella parte centrale, forse davvero troppo lunga – e infine sciogliersi: allora, sotto ai vestiti di Vivian Westwood, le scarpe dai tacchi vertiginosi, le passerelle, i matrimoni, tradimenti, feste, nascite, addii, inizia ad intravvedersi la dimensione più autentica della vita: il tempo, appunto. Le protagoniste sono invecchiate, il tono, persino la storia e, forse, anche noi: in questa nuova chiave il film trova una sua forza, convincente quasi sempre, spesso toccante.
«Già» scriverebbe Carrie Bradshaw sul proprio laptop, accomiatandosi dallo spettatore, «la vita è una cosa strana. E, per rispondere alla vostra domanda: in nessuna delle due».
Voto: 7
Andrea Morstabilini