Dolor y Gloria

30/05/2019

di Pedro Almodovar
con: Antonio Banderas, Asier Etxeandia, Penelope Cruz

Un regista in crisi creativa e di salute si trova ad affrontare i fantasmi del proprio passato. Detto così può sembrare l’ennesimo film autoreferenziale e sofferente di “ottoemezzite”. Invece, nonostante sia un’opera “autobiografica nei fatti al 30%, nei sentimenti al 100%”, nonostante ritornino i colori, i volti, le parole delle pellicole precedenti, non vi è nulla di autocompiaciuto e vi è anzi una spietata esigenza di confessare le proprie debolezze senza cercare un perdono che non sia attraverso l’arte.
Salvador Mallo è un regista di successo, che negli anni ’80 ha segnato la cinematografia e la movida madrilena. Ora però non riesce a superare un grave lutto e le numerose afflizioni fisiche: mal di schiena invalidante, mal di testa acuti e continui, soffocamento… Idee per futuri film ne avrebbe, e riempie il computer di appunti, ma non riesce a portare a termine nulla perché sa di non avere la forza per girare. Si trascina dunque senza scopo in una casa-museo, stordendosi con pillole e droghe che hanno il solo effetto di addormentarlo, ma non di curarlo. Ma una serie di serendipità lo spingono ad affrontare i fantasmi del proprio passato e riappacificarsi con questo, fino a superare il dolore. Il finale, asciutto e poetico, è spiazzante e sereno.
È il film “definitivo” di Almodovar, cioè quello che lo definisce e lo completa, una summa delle pellicole precedenti, a cui però non fa il verso, ma che supera con uno stile rigoroso – lui che è sempre stato flamboyant – una regia e una narrazione non effettistica, lontano tanto dagli eccessi grotteschi quanto dalla sua anima melodrammatica. Come il protagonista, ha trovato la pacatezza  dopo tanta sofferenza, e l’amore per il cinema (e la pittura, e il teatro) come rimedio.
Se “supera” il proprio passato, anche cinematografico, è comunque una delizia ritrovare tutti gli elementi che lo hanno composto, dal cinema degli anni 50 alla musica italiana degli anni 60, da attori feticcio come Cecilia Roth e Julieta Serrano (ancora nel ruolo di madre di Antonio Banderas come in Donne sull’orlo di una crisi di nervi) nonché la musa Penelope Cruz (splendida la scena iniziale delle donne che lavano i panni al fiume e li stendono cantando), a temi ricorrenti come quello del paese in cui è cresciuto e la figura, amatissima, materna (e la mente torna più volte a Volver). Ma le pellicole che più di tutte, prepotentemente, si impongono alla memoria dello spettatore sono La mala educacion (il regista, il seminario, il copione “rubato”) e soprattutto La legge del desiderio (ancora una volta un regista in cui l’autore si riflette, l’ossessione per la scrittura e le parole sbirciate e fatte proprie, le sniffate in compagnia, un monologo teatrale, un prete che suona l’organo per una voce bianca…) dove Banderas si ritrova “a specchio”, da giovane amante a regista in crisi.
Un Antonio Banderas, meritatamente premiato a Cannes, che – come Mastroianni rispetto a Fellini – diventa alter ego del proprio regista. Lavorando di cesello sui mezzi toni (“un bravo attore non piange, ma trattiene le lacrime”), l’attore malagueno è bravissimo ad evitare la trappola del confondere l’autore col personaggio, e dona anima e corpo martoriato al suo Salvador. Il rapporto cinematografico tra lui ed Almodovar è stato intenso negli anni 80 per poi restare sospeso per una ventina d’anni (come nel film…) e riprendere poi in modo repentino e costruttivo: con Dolor y gloria sembra quasi di assistere ad una reciproca dichiarazione d’amicizia, e forse anche più delicata da parte proprio dell’attore che deve portare il fardello di non “tradire” le intenzioni del regista non solo professionalmente, ma anche umanamente.

Voto: 8,5

Elena Aguzzi