The Hurt Locker

14/10/2008

di Kathryn Bigelow
con: Jeremy Renner, Guy Pierce, Ralph Fiennes, Anthony Mackie, Brian Geraghty

Ci voleva una regista per realizzare un film maschio, forte, teso, energico, che si cala all’interno di un conflitto bellico per raccontare conflitti interiori, primo fra tutti quello contro la paura, e la sfida continua con la morte. Kathryn Bigelow ha sempre dato il suo meglio nel raccontare di complicità virili (Point Break) e realizzando thriller adrenalinici (Strange Days, o, ancora, Point Break). Nelle sue storie si fronteggiano uomini sul filo del rasoio per i quali guardare in faccia paura e morte è la linfa vitale, sia questa sfida data dal surf, dallo “squid” o dalla guerra. Quando ha appreso da Mark Boal, sceneggiatore e reporter di guerra, che l’unita speciale per disarmare bombe in Iraq sono talmente presi dalla loro missione dal non riuscire neppure ad immaginarsi un’altra vita, la Bigelow ha sentito di avere in mano la sua nuova storia.
“The Hurt Locker” è un film di guerra visto dalla soggettiva di chi è catapultato all’interno del conflitto, dallo scafandro di chi si lancia a disarmare bombe avvertendo il pericolo sulla pelle, condividendone le emozioni, la follia, l’abitudine all’orrore. Protagonista è William James (un grande Jeremy Renner) nuovo capo dell’unità speciale, spericolato, sregolato e folle come se la morte non lo sfiorasse, con i suoi improvvisi affetti e commozioni e il suo incontro-scontro con gli altri compagni, che alla fine tornerà marciando alla sfida dei 365 giorni come in un perpetuo videogioco mortale. Le riprese alternano uno stile documentaristico da reportage allo scavare profondo nei volti e tra gli ordigni bellici, sui dettagli che intensificano la tensione (la mosca posata sulla palpebra del cecchino), indugiando sul contatto fisico, con la cinepresa sempre addosso ai protagonisti e alle cose. Vi sono momenti terribili, che solo lo spettatore forte riesce a sopportare (il cadavere del piccolo Beckham) che intrecciano l’orrore visivo ad un’emozione partecipe. Senz’altro giudizio se non quello di chi vive i suoi 365 giorni di missione nel mezzo della guerra e che resta contagiato dal suo ritmo febbrile, come una droga irrinunciabile. E tutto, il sangue, la polvere, il rischio, le morti inutili, quelle non evitate, l’angoscia e l’assuefazione all’angoscia, va a formare quell’hurt locker, quella custodia del dolore, che uno si riporta a casa, ad una vita non più sua.

Voto: 8

Gabriella Aguzzi