
Herman J. Mankiewicz (il “Mank” del titolo) è stato colui che insieme a Orson Welles ha lavorato alla stesura della sceneggiatura di “Quarto Potere” (“Citizen Kane”, 1941), canonicamente riconosciuto come “il film più importante della storia del cinema”.
Il nuovo lavoro di David Fincher (“The Social Network”; “Seven”; “Il curioso caso di Benjamin Button”) narra il completamento della scrittura della pellicola da parte di Mank, intervallandola con dei flashback che mostrano il rapporto dello sceneggiatore con l’élite della Hollywood degli anni ’30. In questo contesto, si inseriscono sottotrame personali e politiche, con l’imminente elezione per eleggere il governatore della California tra il repubblicano Mariam e il socialista Sinclair, che dovrà affrontare l’opposizione dell’intera macchina hollywoodiana, intenta a contrastare le politiche del candidato democratico.
Una premessa è doverosa. Ottenere informazioni storiche verosimili guardando questo film è impensabile. Le vicende, i ruoli dei personaggi nella storia, sono estremamente romanzate e ritoccate. È consigliabile informarsi altrove, andando ad approfondire quella che è stata la costruzione di “Quarto Potere”, il coinvolgimento di Welles nella faccenda, il rapporto di Mankiewicz con la Hollywood di quei tempi. Il punto, però, è proprio questo. Fincher non è uno sprovveduto, e questa componente è funzionale al tema del film. In un’opera cinematografica che non sia un documentario, la verosimiglianza storica è qualcosa, a parere di chi scrive, da tenere relativamente da parte. Il cinema è finzione e fantasia.
Il film narra, di fatti, della settima arte dal punto di vista di qualcuno che l’ha vissuta. Nella fattispecie, uno sceneggiatore, figura quasi sempre tenuta in disparte e poco presa in considerazione (il film venne inizialmente ideato dal padre di Fincher, Jack, anch’egli sceneggiatore). Il metacinema, quindi, si sposta questa volta dietro la macchina da presa. Studia il complesso meccanismo che porta a narrare delle storie attraverso delle immagini. Inoltre, ci spiattella davanti l’essenza politica dei colossi cinematografici californiani, capaci di influenzare la massa così in profondità da sbilanciare anche delle elezioni politiche democratiche attraverso dei video progettati a dovere (una sorta di macchina delle fake news ante-litteram).
Gary Oldman interpreta Mankiewicz, e la sua performance è piena di quegli elementi che caratterizzano l’archetipo del figlio di Hollywood, che dalla stessa ha ottenuto tutto ciò che si potesse desiderare, ma che ormai è in aperto contrasto con essa per via di scrupoli ideologici o di coscienza. In questo, Oldman è immenso. Borderline, eppure saggio. Ironico e schietto, fonte di imbarazzo per i benpensanti, ma allo stesso tempo gradito pagliaccio depresso che allieta serate aristocratiche altrimenti monotone. Di fatti, la pellicola fa spesso uso di inquadrature dove molteplici personaggi si scambiano frecciatine o opinioni contrastanti. Questo ci mostra quanti compromessi e concessioni si è costretti a fare, quando ci si trova di fronte ad apparati di potere così complessi. Che valore può avere la nostra visione della realtà, quando questa viene filtrata da una cinepresa, una televisione, o uno schermo del computer? Quanto siamo consapevoli che il nostro divertimento sia cibo per potenti affaristi? Siamo fondamentalmente costretti a gettare via la nostra idea stessa di “verità”, che sarà sempre e comunque manipolata, distorta, indebolita, da chi possiede i mezzi di produzione del consenso (il famoso “soft power”, l’insieme di elementi culturali e sociali con cui un sistema politico basa la propria presa sui popoli, al di là delle azioni politiche o militari).
Questo approccio bipolare tra “vero” e “narrato” si ripercuote sul modo con cui il film è portato avanti, lungo due binari narrativi. Il tempo presente è caratterizzato da un Mank con una situazione di salute precaria, costretto a letto con una gamba ingessata in una casupola in mezzo al nulla, a seguito di un incidente d’auto. La narrazione si alterna con dei flashback che rappresentano, per l’appunto, la narrazione dei fatti. Ogni narrazione altera la realtà in base a chi la racconta. Non a caso, ogni flashback è introdotto da una schermata nera, su cui appaiono gli elementi del contesto in cui stiamo per immergerci, come fosse una sceneggiatura. È Mank – o Fincher – che sta raccontando la sua verità. Ancora una volta, il cinema prende la realtà e la eleva per narrare qualcosa di più interessante. Questo può essere tanto meraviglioso quanto pericoloso.
Si rivanga nei rapporti di Mank con gli squali della cinematografia e dell’editoria, tra cui spuntano alcune figure storiche come William Randolph Hearst, proprietario di uno degli imperi mediatici più ampi della storia. Colui che ha parzialmente ispirato il personaggio di Charles Kane in “Quarto Potere”. Di fatti, un altro aspetto del film sono le varie citazioni al capolavoro di Orson Welles. Non solo perché durante la storia vengono esposti degli elementi in cui possiamo ritrovare degli aneddoti canonici che hanno caratterizzato la creazione di “Citizen Kane”. Ad esempio, la scena in cui a Mank, ormai privo di sensi sul letto, sfugge la boccetta dalla mano che si frantuma al suolo, è un chiaro ricalco al momento di “Quarto Potere” in cui Charles Foster Kane lascia cadere la sfera di neve dopo aver sussurrato il celebre “Rosebud”. Allo stesso modo, il litigio tra il protagonista del film e il personaggio di Welles stesso (Tom Burke) si chiude con quest’ultimo che scaglia degli alcolici contro il camino, rimandando alla scena identica presente in “Quarto Potere”. Litigio mai avvenuto nella realtà storica dei fatti. È impossibile delineare un confine chiaro tra narrazione e realtà. Le scene di “Quarto Potere” ricalcate in “Mank” sono solo frutto di un vezzo citazionistico, o ci suggeriscono che ogni elemento che percepiamo come reale è in realtà un rimando a qualcosa di costruito?
Il cinema non viene però solamente esaltato nella sua componente storica, politica, o citazionistica. Fincher fa un lavoro certosino sulla caratterizzazione dei personaggi e sulle componenti stilistiche. I personaggi sembrano muoversi perfettamente all’interno dell’epoca storica in cui il film è ambientato. La regia e il comparto sonoro ricordano al cento per cento quelli dei film dei decenni presi in esame. Infine, la fotografia di Messerschmidt è da togliere il fiato. Un bianco e nero sontuoso e pieno di sostanza, con tagli di chiaroscuro da far venire la pelle d’oca.
Personalmente, amo i film in cui il cinema viene raccontato non solo attraverso gli eventi che si susseguono, ma anche tramite i dettagli stilistici e di messa in scena (che in questo film sono stellari, a partire dalla già citata doppia narrazione temporale). Il rischio, però, è quello di cadere nell’autoreferenzialità. Questo film corre il pericolo di non essere goduto a pieno da chi non si è prima andato a guardare due righe di storia del cinema, o più in generale da chi non sia un appassionato. Chiunque potrà godere di una bella storia con un personaggio principale delizioso, ma quanti saranno in grado di comprendere la profondità di quello che si sta vedendo senza cogliere i vari riferimenti? Inoltre, il personaggio di Welles viene delineato in maniera eccessivamente antagonistica. Allargando l’obiettivo, sembra che il regista, intesa come figura professionale, sia un truffatore dei meriti del lavoro dello sceneggiatore (Fincher, deformazione professionale paterna?)
Stiamo ad ogni modo parlando di uno dei film migliori dell’anno. Fincher è un grande regista, che lavora con un amore per i dettagli invidiabile. Se avete tempo di cercare un paio di storie in merito al fulcro della storia, amerete quest’opera in maniera molto più profonda.
Voto: 8
Edoardo Cappelli