Superare le tenebre assieme per riscoprire i legami e il sostegno reciproco. Ciò che veramente conta al di là delle paranoie personali. Quando si offre un film riguardo un gruppo di persone appartenenti a una minoranza, è facile cadere nel leitmotiv dell’ambiente circostante che si ostina a negare una qualsivoglia accoglienza. Più particolare è invece circoscrivere un intero universo attorno a un microcosmo familiare, per dipingere la voglia di andare avanti nella vita in un ambiente del tutto personale. La differenza etnica si spiega solamente nelle caratteristiche somatiche dei Lee, e questo non è motivo di scontro nel Midwest americano di quarant’anni fa. Forse perché i genitori hanno assorbito tutte le aspirazioni e le mentalità dell’America reaganiana degli anni Ottanta in cui il film è ambientato. Molte scene che esprimono l’innocenza del più piccolo dei Lee nascondono un distacco di fondo con la nonna, che “puzza di coreano”, e “non è una vera nonna perché non cucina i biscotti”.
“Minari” (Oscar migliore attrice non protagonista) è riuscito a sopravvivere a tutta la trafila dei festival e dei premi che accompagnano l’arrivo della notte degli Academy. Ha espresso il suo lato intrinsecamente indipendente ai Sundance, per trovare l’affermazione ai Golden Globe, prima della serata losangelina, continuando la nuova tendenza di riscoperta (estremamente benvenuta dal sottoscritto) del cinema dell’estremo Oriente, dopo la vittoria di “Parasite” l’anno scorso come miglior film. Inoltre, “Minari” torna ad affrontare un tema estremamente caro alla cinematografia coreana quale l’importanza dell’affetto e l’intesa spirituale in famiglia, rapportato al legame di sangue biologico. Troviamo infatti un’atmosfera che rimanda tremendamente ai lavori di Hirokazu Koreeda.
Si raccontano le difficoltà della famiglia Lee, i quali si sono trasferiti da poco in una casa rurale dell’Arkansas dall’urbana California. Per sostenersi, il padre Jacob tenta l’iniziativa personale coltivando un campo che sembra avere poche speranze. Il figlio più piccolo, David, ha il cuore malandato; la figlia Anne soffre le continue liti dei genitori; la madre Monica tenta di uscire dalla vita che le si è prospettata. È la storia di qualunque famiglia non benestante che prova a superare gli ostacoli della quotidianità. Il film però tratta di un’origine esotica, che aggiunge alla pellicola il magnifico legame con un mondo lontanissimo e incomprensibile persino ai protagonisti della pellicola. Il collante con l’altrove arriva con l’entrata in scena della nonna, Soon, madre di Monica, che riporta un po’ di naturalezza e introduce i bambini Lee a un altro modo di vedere il mondo. Il Minari, pianta asiatica che dà il titolo all’opera, è rappresentativo di tutto questo. Un’erba adatta a ogni utilizzo e che cresce rigogliosa, se posta nelle giuste condizioni.
Il contrasto è elemento fondamentale della storia. A confliggere sono i due diversi contesti continentali da cui i protagonisti provengono, le divergenze tra prima e seconda generazione, il particolare modo di vivere la fede o il misticismo, l’idea di comodità contro l’ingegnarsi per sistemare una situazione avversa. Non di meno, un conflitto tra siccità e acqua, elemento fondamentale della trama, da sempre simbolo di vita e rinascita. Contrastante è anche il calore delle luci della casa di legno dei Lee con i colori chiari e poco intensi del mondo. Ma soprattutto, il film racconta uno spaccato netto tra città e campagna, legati unicamente dalla voglia di riscoprire di cosa sia fatta la Terra e dove si nascondano le meraviglie che la compongono. La cesura tra mondo interno e realtà esterna è netta. Il film è talmente concentrato sulla casa e la fattoria dei Lee, che a volte sembra non poter esistere neppure l’idea di qualcosa d’altro.
Il ritmo di “Minari” è posato, tipicamente orientale, con una regia di ampio respiro che non lascia mai indietro i contesti in cui i personaggi si muovono. Il tutto accresciuto da una colonna sonora estremamente evocativa. Il punto di vista è spesso appannaggio dei bambini, che devono muoversi in un mondo che non possono conoscere. Gli adulti sono colpevoli, perché conoscono le regole tremende del gioco, ma decidono di assecondarle. Lee Isaac Chung è molto abile a giocare con gli elementi della messa in scena, per dare indizi al pubblico riguardo a cosa potrà accadere di lì a poco, ma riuscendo sempre a sviare lo sguardo e l’attenzione. Gioca con la suspense con fare hitchcockiano, senza mai però negare ai personaggi del suo film una possibilità di ricostruire qualcosa che fiorirà in futuro. In questo è molto aiutato dal cast, fiore all’occhiello del film. Ognuno si ritaglia il proprio spazio con un’ottima compostezza e intensità, che accoglie lo spettatore all’interno delle quattro mura decadenti che regolano i giorni della famiglia.
Voto: 8
Edoardo Cappelli