“A Quiet Place” fu un film che incuriosì particolarmente il pubblico cinefilo per via di alcune sue caratteristiche peculiari che esulavano dal contesto horror contemporaneo. John Krasinski (attore e regista dello stesso, che molti di voi si ricorderanno per aver interpretato Jim nella versione americana della serie “The Office”) aveva messo in piedi qualcosa di notevole e molto intelligente. In un mondo apocalittico – omettiamo il termine “post”, poiché l’apocalisse in questione è ancora in corso –, una razza aliena ha invaso la Terra e soggiogato gli umani. Questi mostri sono ciechi, ma hanno una forza e una velocità smisurata unite a una capacità molto sviluppata di captare ogni rumore anche a grandi distanze. Gli esseri umani, quindi, sono costretti a sopravvivere rimanendo nel silenzio più totale. Seguiamo quindi le vicende degli Abbott, una comune famiglia media che cerca di non cadere preda di queste creature. Una costruzione del genere, che ha del geniale, è genitrice di numerose buone trovate. La figlia Regan (Millicent Simmonds), ad esempio, è sorda, quindi la famiglia ha dovuto imparare a comunicare con il linguaggio dei segni, e ciò permette una forma di dialogo anche laddove non è presente il parlato.
La peculiarità uditiva delle creature – pericolosissime e senza possibilità di essere scalfite – aumenta a dismisura la tensione in ogni momento della pellicola, in quanto è sufficiente far cadere un bicchiere per rischiare la morte. Era anche molto interessante guardare i protagonisti ingegnarsi nell’organizzazione di vari stratagemmi per confondere i mostri o fuggire in sicurezza, in caso di emergenza. Inoltre, banalmente, è un film che obbliga lo spettatore a guardare con attenzione lo schermo e rimanere in silenzio per non rovinare l’atmosfera generale. Questo crea una connessione portentosa con gli eventi della storia. Una realtà in cui noi, esseri umani contemporanei, così inclini a far rumore e a sbraitare per qualsiasi cosa, veniamo privati di ciò che più ci definisce, crea un forte spaesamento. Apprezzatissima, in aggiunta, l’evidente ispirazione presa a piene mani da alcuni maestri dell’horror degli anni Settanta-Ottanta, Carpenter su tutti.
Queste idee, soprattutto da un punto di vista tecnico, sono in parte rimaste intatte in questo secondo capitolo. Krasinski rimane abilissimo nel costruire la tensione nelle scene più concitate, mostrando al pubblico degli elementi di messa in scena di cui gli altri personaggi nella storia non sono al corrente. Una struttura della suspense di Hitchcockiana memoria. A tal proposito, molto intelligente la scelta di girare alcune scene con una semi-soggettiva della figlia Regan, che fa piombare tutta l’ambientazione nel silenzio, coinvolgendo l’audience in una mancanza sensoriale che non permette l’individuazione del pericolo. Diventiamo sordi insieme a lei. Krasinski gira bene e la direttrice della fotografia Polly Morgan fa un lavoro eccelso, che continua la buona tradizione del primo film. L’alternanza tra luci rosse, blu e verdastre esprime al meglio l’assoluta eccezionalità e degrado dell’universo in cui veniamo catapultati. I tagli di luce accentuati e i potenti chiaroscuri mettono in risalto la decadenza e la fatica dei volti, favorite da una performance magistrale di tutto il cast. I due ragazzi sono fenomenali, ed Emily Blunt è (ancora una volta) regina indiscussa nel dare al proprio personaggio un ruolo di perno assoluto, sebbene in larga parte costretto a non intraprendere iniziative solitarie.
Va detto però, per completa onestà, che tutte queste ottime qualità sono derivative del primo film. Ciò non è un punto a sfavore, ma una semplice specificazione. Krasinski potrebbe star costruendo un proprio stile orrorifico, e vedere certi stilemi tecnici sopravvivere nel tempo potrebbe essere ottimo per lui. È indubbio però che anche vari componenti della messa in scena rimandino (o meglio, strizzino l’occhio) alle vicende della prima parte. Il film stesso inizia con un piccolo prologo dove viene mostrato il primo giorno in cui questa razza aliena è arrivata sulla Terra – con una qualità registica notevole – per poi riagganciarsi direttamente al finale del predecessore, dove la madre Evelyn (Emily Blunt) e i figli Regan e Marcus (Noah Jupe) hanno trovato finalmente un modo per contrastare le creature. Questo intermezzo dona al film maggiore libertà. I protagonisti hanno la possibilità di muoversi e lasciarsi andare a qualche rumore in più. I dialoghi sono di fatti molto più presenti. Ciò fa inevitabilmente cadere l’aura di impermeabilità e chiusura che nel primo era il punto cardine di tutta la paura generata.
“A Quiet Place – Parte II” risulta infatti molto meno impattante da questo punto di vista. È ahimè più simile a un classico horror blockbuster, meno innovativo e più di raccordo. Lo testimonia l’utilizzo regolare e frequente di jumpscare e forti sonorità. Le accortezze della Parte 1, che avevano dato vita a metodi molto furbi e intelligenti di creare paura e ansia, vengono qui sostituiti di frequente da cadaveri che cadono all’improvviso o uccelli che prendono il volo dopo una lunga sequenza di silenzio, facendo saltare lo spettatore sulla poltroncina della sala.
L’atmosfera tesa del primo è stata senza dubbio sacrificata a un contesto che sembra essere molto più action. Non possiamo neppure sviluppare la nostra curiosità nel vedere in che modo la famiglia è capace di cavarsela da sola dopo gli eventi funesti della prima parte, data l’intromissione del personaggio di Emmett, interpretato da Cillian Murphy, che va di fatto ad assumere un ruolo surrogato di padre-eroe. L’allargamento del mondo in cui i personaggi si muovono introduce una serie di nuovi elementi non necessari, i quali non aggiungono nulla alla storia, ma sono solo propedeutici per le scene “esplosive” che arriveranno di lì a breve. Punto più basso del film è infatti la presentazione della comunità isolata à la “Lost”, che vorrebbe offrire maggiori dettagli riguardo i tentativi di mettersi in comunicazione via radio avvenuti durante il primo capitolo da parte del padre Lee, ma crea involontariamente un buco di sceneggiatura enorme e alla fine si rivela essere un nulla di fatto.
Anche questo capitolo si conclude con un “cliffhanger” (cioè con una scena sospesa a metà, atta a generare clamore nel pubblico per qualcosa di nuovo che arriverà in futuro), confermando l’aspetto “seriale” dell’opera di Krasinski. Purtroppo, in virtù di questo, il film risulta essere poco utile ai fini del quadro generale. Non scopriamo nulla di veramente importante e nuovo sulla storia dell’universo creato. Finiamo la visione della pellicola con lo stesso bagaglio conoscitivo di quando cominciano i titoli di testa. Veniamo unicamente spostati da una scena di sopravvivenza all’altra, quasi come se ci trovassimo in un percorso a livelli, per poi essere rimandati a un terzo capitolo.
Stiamo pur sempre parlando di un film con un’ottima levatura estetica e che è comunque capace di regalare momenti di tensione – sfortunatamente molto più di rado e con qualche sbavatura a livello di montaggio e messa in scena, tra asciugamani che si sistemano miracolosamente e piedi feriti che camminano senza problemi su sassi aguzzi. Piccolezze trascurabili, ma l’amarezza, bisogna ammetterlo, è consistente, soprattutto se si pensa al livello di attesa che questo secondo capitolo ha provocato nel tempo.
Voto: 6
Edoardo Cappelli