
Fulvio, Matilde, Cencio, Mario hanno poteri speciali, che li rendono affascinanti sotto il tendone del Circo Mezza Piotta, quanto repellenti e inquietanti fuori, nel mondo cosiddetto reale: che è quello dell’Italia (Roma) del 1943, in piena occupazione nazista.
Tra vagabondaggi picareschi e desiderio di riscatto, accantonata la fuga in America, si giocheranno al meglio le loro carte ‘speciali’ lottando, nel modo tutto loro, contro la violenza e la sopraffazione degli occupanti.
Della storia, del plot, a ben vedere, c’è poco di più da dire: che non mancano i colpi di scena e le virate improvvise, che a tratti rallenta e sembra acquietarsi, che sfrutta molto bene le pause e le soste per caratterizzare i personaggi (penso alla scena iniziale del bivacco tra le rovine, quando davanti al falò si cominciano a schiudere le personalità), che tutto sommato non tradisce le aspettative – ben alimentate – neppure nel finale, seppur prevedibile.
Quindi i toni, lo stile, il linguaggio visivo, e quello parlato: importanti i dialoghi, sempre al ritmo giusto e senza mai prender troppo sul serio la scena e l’azione. Ma quello che colpisce, affascina e travolge, è lo stile visivo, curatissimo, mai ammiccante e sempre funzionale. Mainetti, da bravo equilibrista, riesce a coniugare con apparente naturalezza il favolistico e il realismo, la poesia e l’invettiva, lo sfottò e la magia. Vien da pensare al realismo magico dei “Cent’anni di solitudine” di Márquez, si parva licet.
E così al misterioso e magico dominio che i Nostri Quattro hanno sulle forze della natura (magnetismo, elettricità, insetti e forza bruta), s’affiancano la crudezza dell’imprecazione, la ruvidezza di affetti – e contatti – impossibili, l’urgenza della salvezza personale, l’irruzione del mondo reale e drammatico (mai cinico) che straccia il tendone del circo e catapulta il quartetto nel mondo, improvvisamente indifeso e fuori posto.
Al di là della retorica dell’accettazione (che non c’è, mai) del diverso, il baricentro d’attrazione di tutto il racconto è precisamente la ricerca, personale e collettiva, e la conquista di un proprio posto nel mondo: affianco a quegli altri reietti senza ragione (gli Ebrei di Roma, rastrellati dal Ghetto e deportati sui vagoni piombati), finendo per trovare un senso (e un controllo consapevole) ai sorprendenti poteri che li han fatti mostri, e che li trasformano in ‘brutti’ eroi.
A ben guardare, e volendo a tutti i costi trovargli difetti, Freaks Out a volte eccede, se non nei toni, nel sovradimensionare narrativamente la storia: non è un plot di grande modestia, non si accontenta di affascinare; vuole invece travolgere, straniare. Quindi qui tutto è estremo, ferito, ritorto: ecco il Battaglione partigiano de I diavoli storti, a ciascuno manca qualche pezzo ma combattono senza paura e con abbondanza di imprecazioni e follia. Ecco le torture personalizzate dei nuovi assunti al Zircus Berlin, ecco un fratello pianista che strangola il fratello colonnello… non sono tinte troppo fosche, non è questo, perché c’è comunque un garbo, una misura nel modo, più da acquarello che da pastoso olio su tela. Però è tanto, a tratti troppo.
Per il resto che dire? Musiche, effetti speciali, ambientazione, scenografie, tutto perfetto, con grande e accurato dispiego di mezzi. E le interpretazioni sono semplicemente… perfette.
Senz’altro da vedere, un film a suo modo da collezione.
Voto: 8
Davide Benedetto

I primi minuti dettano l’equilibrio che manterrà la storia durante tutto il film: dopo essere entrati nella tenda e averci presentato tutti i personaggi principali della nostra storia con un timbro favolistico, improvvisamente il tono del film cambia, ricordandoci che è pur sempre una storia ambientata durante la seconda guerra mondiale. In questo risiede gran parte del fascino del film di Mainetti: riuscire a raccontare una storia fantastica pur incorniciandola nella crudeltà dell’occupazione nazista durante i rastrellamenti degli ebrei. Infatti, anche se la nostra storia non abbandona mai il tono di una favola gentile, neppure risparmia scene d’azione o crudeli. D’altra parte in tutte le favole assieme alle fate ci sono sempre dei mostri ma in “Freaks out” i mostri non sono quelli che immediatamente appaiono come tali, persone dotate di caratteristiche o poteri straordinari; i mostri sono persone normali che deridono i diversi e prevaricano i deboli. E in fondo il vero mostro è la guerra stessa che “trasforma gli uomini migliori nei peggiori” (citando una battuta del film stesso). Da questo punto di vista i cattivi sono subito riconoscibili e i nazisti fanno egregiamente la loro parte (d’altro canto il Terzo Reich, nel suo orrore, ha “regalato” ad Hollywood dei cattivi iconici che ormai da quasi un secolo calcano le scene dei film), ma l’antagonista non appare bidimensionale, schiacciato dal ruolo che riveste; viene quasi presentato, invece, come una delle tante strade possibili che può prendere un uomo. E in fondo il tema del film è proprio l’accettazione della propria diversità come dono e la ricerca dei legami con quelle persone che, riconoscendoci e amandoci per quello che siamo, ci fanno sempre sentire a casa. E non pare un caso la citazione dal Mago di Oz: come Dorothy anche la vera protagonista del film, Matilde, cerca di tornare a casa, anche se la sua è un circo vagante fatto da artisti circensi. Roma fa da sfondo a questa storia ambientata durante la seconda guerra mondiale e Mainetti, pur senza rinunciare a mostrare alcuni dei luoghi più belli della città eterna, non presenta mai delle cartoline. Dalla fotografia alla messa in scena, dalla recitazione fino ai titoli di coda, insomma tutto il film nel suo insieme è stato pensato e realizzato per essere visto al cinema e, dato che la sua proiezione è stata rinviata a causa della pandemia, bisogna dire che valeva la pena aspettare.
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Voto: 8
Emilio Lo Giudice Romanengo