La voga dei “biopic” in ambito musicale sembra sempre più consolidata, anche se talvolta ciò suscita qualche dubbio. Perché ricorrere a una ricostruzione quando sarebbe sufficiente, e magari più interessante, utilizzare la grande abbondanza di materiali d’archivio, filmati e interviste già esistenti per tracciare il profilo di un’epoca, raccontare vicende o proporre il ritratto di un artista? Per quale ragione narrare i fatti servendosi di attori che interpretano ruoli, se si dispone di chi gli eventi li ha vissuti in prima persona?
La protagonista del film di Liesl Tommy ha goduto di una fama destinata probabilmente a non offuscarsi mai, ed è auspicabile che la visione di “Respect” possa far aumentare ulteriormente il numero incalcolabile di fan che adorano le sue canzoni.
Tuttavia, basterebbero alcune sequenze di documentari preziosi quali “Atlantic Records: The House That Ahmet Built” (2007) o “Muscle Shoals” (2013) per mostrare in maniera più compiuta “stralci” della carriera dell’artista in cui le testimonianze sono offerte da chi vi ha contribuito e preso parte, oltre che dalla stessa Franklin.
Certo, quelli sono solo frammenti di un percorso intrapreso nell’industria discografica in decine di anni, che la regista cerca invece di descrivere nella sua interezza. Obiettivo non del tutto centrato, a dire il vero, a causa dei molti rimandi a temi e problematiche accennati e poi lasciati cadere, o non sviluppati adeguatamente: turbamenti, inquietudini e insicurezza; la discriminazione razziale, la condizione degli afroamericani e la lotta per i diritti civili; la maturazione di una consapevolezza dei problemi politici e sociali dell’epoca; l’impegno e la rivendicazione delle radici africane.
Sarebbe però ingeneroso addossare troppe colpe alla Tommy: impossibile rappresentare la complessità e la molteplicità dei suddetti argomenti in poco meno di due ore e mezza. Piuttosto, segnaliamo la mancanza di vivacità della regia, che rende la visione non proprio entusiasmante, nonostante la recitazione degli attori, efficace e credibile.
Due parole sui brani e sugli artisti a cui si fa riferimento: tra gli altri, oltre alla Franklin e alle sue interpretazioni immortali, Sam Cooke e i Soul Stirrers, Ben E. King, Smokey Robinson, Berry Gordy e la Motown, la Stax Records, Otis Redding, Etta James (ma anche Nat King Cole e Dinah Washington).
Una delizia, se si è appassionati di soul e rhythm and blues; e, al contempo, una testimonianza straordinaria di un’epoca, gli anni Sessanta, in cui la musica è stata in grado di abbattere le barriere del pregiudizio razziale, e di creare integrazione tra “bianchi” e “neri” anche grazie alla fusione di elementi delle loro tradizioni: culture “diverse” che spesso il disprezzo e l’intolleranza avevano costretto all’incomunicabilità.
Al di là della ricostruzione biografica, uno degli aspetti (apparentemente trascurabili) più pregevoli del film è proprio la funzione divulgativa che assume nel rilevare il nesso profondo che legava la musica, in quanto produzione artistica, ai fenomeni sociali, e, più nello specifico, nel dare il giusto peso ai FAME Recording Studios di Muscle Shoals, in Alabama: un laboratorio musicale innovativo in cui l’interazione e la fusione sopracitate diedero vita a sonorità vibranti e viscerali di formidabile intensità.
I momenti più appassionanti dell’opera della Tommy sono girati tra le pareti di quello studio di registrazione, durante le session: lì Aretha Franklin individua il sound che lancerà seriamente la sua carriera, e, grazie all’apporto decisivo dei musicisti, il brano “I Never Loved a Man (the Way I Love You)” trova la forma definitiva, facendo diventare la sua interprete una star di altissimo livello.
Il resto della narrazione non riserva purtroppo grandi sussulti, riproponendo sullo schermo le alterne vicende della vita, tra circostanze favorevoli e insuccessi, euforia e sconforto, risolutezza e tentennamenti, picchi e baratri.
A illuminare tutto, però, una musica di struggente bellezza.
Il motivo per cui eravamo in sala.
Voto: 7
Andrea Salacone