
Lo spettatore viene accolto alla visione da dei sobri titoli di testa su campo nero, accompagnati da dei secchi rumori metallici. Il primo piano sui capelli capovolti e lo sguardo affaticato della protagonista Chiara (Swamy Rotolo) sembrano suggerirci un imminente conflitto che la ragazza non può sopportare, per poi mostrarcela però intenta a correre su un tapis roulant, mentre i frastuoni metallici di poco prima si rivelano essere prodotti dagli attrezzi utilizzati nella palestra in cui ci troviamo. Già da questi pochi secondi iniziali capiamo la filosofia estetica del film: siamo dentro al mondo di una quindicenne la quale vive normalmente la propria vita, non rendendosi conto dell’oscura realtà che le sta per arrivare addosso. Una verità che si palesa poco dopo il diciottesimo compleanno della sorella Giulia (Grecia Rotolo), quando Chiara, insospettita da vari litigi che ha visto manifestarsi nel corso della giornata, si spinge in piena notte fuori casa appena in tempo per vedere la macchina di famiglia saltare in aria. Da lì, la giovane cercherà risposte ai propri dubbi, giungendo alla terribile consapevolezza che gran parte della propria famiglia è parte di una cosca della Ndrangheta.
“A Chiara” è un film sull’identità, il senso di appartenenza, il libero arbitrio, pregno di un forte amore empatico per l’umanità. L’opera pare muoversi sui classici stilemi del “Mafia movie”, ma si tratta di pura apparenza. Durante tutto l’arco narrativo non vediamo esplodere un singolo colpo di proiettile, né altre classiche rappresentazioni del mondo criminale. Questo perché il regista, Jonas Carpignano, conosce bene il contesto che sta raccontando e si impegna nel creare una pellicola dai tratti fortemente umani, dove ciò che in quel mondo viene sempre costretto alla segretezza, non viene forzatamente fatto emergere per esigenze di spettacolarità. Chiara è l’unico personaggio che matura, immersa in un contesto di pacchiana omertà e mezze risposte. Anche nei momenti in cui la ragazza affronta di petto i membri della propria famiglia, pretendendo di venire a conoscenza di dettagli mai svelati, le repliche che ottiene non trattano mai il punto ed evitano puntualmente la questione con giri di parole e cambi di argomento. Si gioca palesemente sul contrasto tra essere figli ed essere affiliati. Tutti i personaggi (interpretati molto bene da attori per la maggior parte non professionisti, residenti di Gioia Tauro che il regista ha impiegato per la prima volta) compiono le loro scelte e le portano consapevolmente avanti. Nessuno di loro diventa una macchietta bidimensionale: sono tutti ben caratterizzati dal loro agire e dalle parole che usano per giustificarlo. A tal proposito, aiuta l’asciutta sceneggiatura e i dialoghi iperrealistici, alcuni dei quali ripresi da conversazioni reali.
Carpignano si impegna nel far sì che i pensieri di tutti i personaggi vengano compresi. Il tentativo è chiaro: far entrare lo spettatore all’interno della storia e della mentalità di ognuna delle persone che appaiono sullo schermo. “Loro la chiamano mafia, noi la chiamiamo sopravvivenza”, dirà a un certo punto il padre di Chiara (Claudio Rotolo). Ciò non vuol dire condividerne il punto di vista, ma assorbirne e ammetterne l’esistenza. La pellicola vuole palesemente sottolineare le mancanze e le ipocrisie di un certo tipo di stile di vita. La regia di Carpignano si focalizza molto sui campi stretti, proprio per ottenere questo effetto di immedesimazione. Frequentissimi i primi e i primissimi piani, le riprese claustrofobiche, l’uso della camera a mano, il fluido giocare con i cambi da riprese oggettive a semi-soggettive. È come se noi spettatori fossimo lì e spiassimo costantemente ciò che accade dalle spalle di Chiara. Abbiamo chiesto al regista cosa questa scelta comportasse nel rapporto con gli spettatori. Cosa venisse richiesto al pubblico allorquando quest’ultimo entra così a fondo in un ambiente che non conosce.
“C’è sicuramente il desiderio di togliere allo spettatore dei preconcetti nei riguardi di un mondo del genere. Volevamo dare più spazio all’umanità che si nasconde dietro certi stili di vita, far calare lo spettatore nei panni di tutti. Guardare da un’altra angolazione. Sicuramente il film ha delle parti molto claustrofobiche, me ne rendo conto. L’idea, tuttavia, non è quella di sfidare il pubblico, non sono di certo un artista Dada (ride). Non è questo il mio obiettivo. Capisco però che non è un racconto normale, quindi sì, probabilmente chiedo un impegno in più a chi guarda il film, e vi ringrazio in caso vogliate fare questo sforzo con me.”
“A Chiara” spazia costantemente tra la superficie e il sottosuolo, che diviene inevitabilmente simbolo di una ricerca personale verso l’ignoto, lasciando affiorare un’imprevista evoluzione. Le scelte cominciano ad essere frutto di una genuina presa di posizione personale, la quale però contrasta con le pretese dell’ambiente circostante e persino con lo Stato che dovrebbe proteggerla, eccessivamente intento a far quadrare i paletti del proprio pragmatismo, piuttosto che scrutare in profondità l’individualità delle vite che pretende di gestire. Sebbene la pellicola orienti infatti attorno alla protagonista, risulta necessaria un’interpretazione corale per comprenderne l’essenza. Tutte le persone di Gioia Tauro con cui Chiara interagisce sono fondamentali, in quanto aggiungono un tassello a un mosaico in bilico continuo tra il desiderio di libertà e l’amore familiare. Al netto di una colonna sonora troppo furba (ma utilizzata intelligentemente, in quanto tutti i brani che sentiamo durante il film vengono riprodotti anche all’interno dell’universo della storia) e un ritmo che soffre qualche lungaggine forse non necessaria, Carpignano confeziona un’opera semplice, circolare nella rappresentazione ma progressiva nel suo svolgimento.
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Voto: 7
Edoardo Cappelli