
C’è Carpenter, nella sua fusione strampalata tra oggetti ed esseri umani. C’è Cronenberg, col suo utilizzo sfrontato della corporalità per arrivare all’orrore. C’è David Lynch, nell’oscura assurdità che ci viene messa davanti agli occhi. C’è la caduta nel baratro della trilogia del colore di Kieszlowski; la psichedelica follia di Gaspar Noè; il freddo distacco nella psicopatia di Lars Von Trier. “Titane” rimescola stimoli cinematografici a non finire, condendoli con una cura estetica notevole e una sfrontatezza nella messa in scena che lascia sbigottiti. La storia di Alexia è tragica per quanto questa sia sinonimo di isolamento. Si parte con l’incidente in macchina da bambina che la costringe ad avere una placca di titanio nel cranio, scena che ci offre in aggiunta un rapporto non certo idilliaco con il compagno della madre (e, verosimilmente, con la madre stessa). Da lì, un’ellissi temporale ci consente di indagare la vita della protagonista da adulta, la quale lavora come modella in un motorshow e si rende protagonista di una lunga serie di omicidi cruenti, apparentemente senza movente e con una spietatezza disarmante. Nel mentre, rimane incinta di una macchina con cui ha un rapporto sessuale, sovrannaturale quanto fortemente corporeo. No, non avete letto male. Nel tentativo di sfuggire alla polizia, cambia i propri connotati e viene scambiata da un capo dei vigili del fuoco per il proprio figlio scomparso.
La Ducornau sembra avere un talento particolare nel far risaltare i materiali. La scena del motoshow rimane impressa per la vivida colorazione delle macchine, contrapposte alla sensualità delle donne che vi ballano attorno. La prima parte del film è in gran parte ambientata in luoghi fittizi, pieni di artificialità. L’illuminazione e gli elementi in scena non sono mai naturali, e si fondono perfettamente con le persone presenti, le quali non eccellono per umanità. Al contrario, nella seconda metà, laddove si lascia più spazio a un’indagine sul contatto umano, il tutto diviene meno accentuato e più soffuso, anche in quelle parentesi in cui i personaggi sono immersi nel neon perché intenti a festeggiare o a divertirsi. L’autrice è abilissima nel comunicare le sensazioni fisiche dei personaggi allo spettatore. Ogni dolore e ogni prurito sono maledettamente reali, percepiti nettamente grazie alle scelte di regia che si focalizzano sui segni corporali, i movimenti delle mani o le espressioni dei volti. Aiutano notevolmente, in questo senso, anche il meraviglioso comparto sonoro e il fantastico gioco di luci che compone la fotografia di Ruben Impens. Il lato tecnico è talmente ben fatto da rendere il malessere palpabile, anche laddove non stia succedendo nulla. Ne è un esempio perfetto la tensione omoerotica che pervade determinate scene in cui è presente la squadra dei vigili del fuoco. La disposizione estetica di questi momenti lascia il pubblico in tensione, in quanto l’atmosfera si scarica di ogni moralità. Nel baccanale di corpi in movimenti e sguardi persi nel vuoto, ci aspettiamo che da un momento all’altro qualche personaggio farà qualcosa di estremamente disagiante o dannoso per gli altri.
Il film è stato molto discusso per la grande violenza di cui fa mostra. A un occhio poco attento potrebbe sembrare un semplice sfoggio di cattiveria gratuita, e forse in alcuni tratti è effettivamente così. Se il film ha un difetto è quello di lasciare eccessivamente in sospeso la parte iniziale in cui Alexia sfodera i suoi peggior istinti, tanto che alcune scene potrebbero sembrare nate dalla volontà di esibire una crudeltà senza sostanza, con l’unico scopo di far ribaltare lo stomaco dello spettatore. Eppure, questa violenza è necessaria al racconto, principalmente in virtù del contrasto che si crea con il mondo della seconda parte del film. Quando Alexia uccide, è sola. È anche questo che le garantisce di svincolarsi da ogni responsabilità e scappare. Nell’istante in cui riesce a stabilire un contatto (mai troppo esplicitato), subisce un’evoluzione che la porta a rinunciare alla necessità di imprimere dolore negli altri. Non pensate però che questa rivelazione sia la chiave per una vita felice e serena. Mentire continua ad essere una necessità, così come la menzogna e l’omissione di sé.
Da qui si palesa l’estremo pessimismo del film: non si scappa dalla solitudine così come non si scappa dal male che essa comporta. Anche qualora siamo in grado di trovare un appoggio, non potremmo comunque gestirlo, in quanto dovremmo ad ogni costo nascondere le nostre parti peggiori, quelle più reali. Non è un caso che l’unico rapporto sincero e duraturo (per via della gravidanza che comporta) di Alexia avvenga con un’automobile. Questo rende Alexia una sorta di donna meccanica, un accenno al transumanesimo già suggerito nelle prime scene dove, in seguito all’incidente, la bambina si ritrova con dei supporti metallici che le assicurano la convalescenza. Dall’altra parte abbiamo il personaggio di Vincent, il capo dei pompieri, disposto a vivere nell’illusione e nella falsità piuttosto che accettare la realtà per quella che è. Consapevole dei propri limiti, esprime un disagio che ostacola la sua immagine pubblica di grande uomo. Ogni personaggio di questo film possiede un disagio intrinseco e tremendamente triste, che lo rende spiacevole. Una pellicola che non lascia spazio a regali. Sia visivamente che intellettualmente.
Voto: 8
Edoardo Cappelli