
Siamo tutti influenzati dal preconcetto secondo il quale i bambini non sono in grado di comprendere determinati aspetti dell’esistenza, o che non sia giusto renderli partecipi del dolore. Ognuno di noi ritiene necessario nascondere dettagli oscuri della propria vita, addolcendo la pillola o eludendo le domande. L’ultimo film di Céline Sciamma, invece, impone allo spettatore di riflettere sul fatto che i bambini sono creature intelligenti, capaci di concepire il mondo e gli spazi che hanno attorno, meritevoli di sapere. La mancanza di comunicazione e la repressione dei traumi che caratterizzano la crescita dei “grandi” sono alla base dei tormenti degli adulti stessi in “Petite Maman”. Un film che ha, tra le altre cose, il merito di non volersi eccessivamente dilungare, facendo rientrare una storia all’interno dei 72 minuti necessari ai fini narrativi, perfettamente calzanti per ciò che viene rappresentato. La prima grande forza del film sta in questo: la Sciamma lavora per sottrazione. Vediamo degli elementi fantasy, degli incontri impossibili che spaziano nel tempo e nelle connessioni umane, ma tutto ciò viene portato avanti con bassissimo budget e meravigliose idee di rappresentazione. La genialità della regista risiede ampiamente nell’abilità di comunicare tantissimo utilizzando pochi elementi, piazzando una scrittura magniloquente laddove non c’è apparentemente nulla (ricorrendo più alle immagini che alle parole).
La storia della piccola Nelly (Joséphine Sanz) comincia con l’ultimo saluto alla nonna nella casa di riposo in cui l’anziana risiedeva. Il rapporto tra le due viene magnificamente raffigurato con una breve interazione in cui risolvono assieme gli enigmi del cruciverba, con un taglio di luce caldo e dolce. Ciò è sintomo di una profonda affinità intellettuale, oltreché sentimentale. Successivamente alla morte della nonna, la famiglia di Nelly si sposta per qualche giorno nella vecchia casa di campagna della defunta parente per svuotarla. A condurre lo sgombro sono però principalmente Nelly e il padre (Stéphane Varupenne), in quanto la madre (Nina Meurisse) si assenta a causa di quella che sembra essere una velata crisi di depressione. Costretta a trascorrere gran parte del tempo da sola, Nelly si inoltra nel bosco, teatro dei giochi di infanzia della madre in passato, incontrando un’altra ragazzina: sua madre da bambina (Gabrielle Sanz).
Se in “Ritratto di una giovane in fiamme” la Sciamma si affidava all’estremamente grande (esplorando una femminilità ampia, pomposa, in costume, ambientata in epoche lontane, elegante per quanto sostanzialmente erotica), in “Petite Maman” si ritorna all’estremamente piccolo. Qui c’è una femminilità ancora non sbocciata carica di semplicità e innocenza, componenti rafforzate dalla consapevolezza che i due personaggi intenti a interagire siano in realtà madre e figlia. La maturità della bambina è un prodotto dell’incapacità degli adulti di accettare il male derivante dalla realtà. Il bosco e la capanna di legno che le bambine costruiscono insieme divengono un portale. Il non-luogo disperso nel nulla cuce insieme il presente e il passato, rendendo impossibile disgiungerli realmente. Questa continuità tra le due realtà è espressa in modo ancor più deciso dalla somiglianza degli elementi visivi sparsi nelle scene. La casa di campagna non cambia, i vestiti sono somiglianti (quindi non lasciano intendere un chiaro cambio di ambientazione temporale), gli oggetti di arredo rimangono identici. In virtù di questo, la regista ha deciso di scegliere due sorelle gemelle per interpretare le due bambine – il che apre la porta, a onor del vero, ad alcuni momenti di smarrimento in cui non è ben chiaro chi sia chi.
Il padre rimane l’unica figura realmente esistente all’interno del panorama familiare della pellicola, ma riesce a colmare l’assenza degli adulti solo parzialmente. Assenza rimarcata dalla totale mancanza di una colonna sonora (eccezion fatta per un brano verso il finale), ma colmata con dei dialoghi meravigliosi: secchi, ridotti al necessario, eppure estremamente potenti. Esemplare è lo scambio tra la madre adulta e la piccola Nelly in una delle scene iniziali, in cui la prima osserva: “Mi fai sempre un sacco di domande quando è il momento di andare a letto”. La bambina replica tagliente: “E’ l’unico momento della giornata in cui ti vedo.” L’impossibilità da parte della mamma di instaurare un rapporto a viso aperto con la figlia, sebbene pieno di amore genuino e sincero, è il perno concettuale di tutta la pellicola. Non a caso veniamo gettati nel mezzo di una serie di eventi che all’inizio ci appaiono come un tentativo di fuga immaginaria di Nelly, che necessariamente deve sconfiggere la propria solitudine e sente il bisogno di esprimere un desiderio di contatto e vicinanza. Nel fare questo, la Sciamma è straordinariamente abile a non colpevolizzare alcun personaggio. La calma positività del padre; l’affetto incondizionato e comprensivo di Nelly; lo sguardo terribilmente triste della madre; il successivo scavare che il film ci lascia operare all’interno della sua vita passata: indizi che dispiegano un’amorevole empatia nei riguardi dei drammi personali di questi personaggi. La sofferenza della mamma di Nelly lascia scivolare in secondo piano l’apparente distacco dai doveri genitoriali, in favore di un’umana comprensione del dolore.
“Petite Maman” si oppone alla rigida classificazione delle fasi della vita, la quale impone uno scavalcamento netto tra l’età infantile e gli anni della maturità. Se è vero che la vita e le relazioni interpersonali sono onnipresenti e in continuo mutamento, è giusto considerare l’evoluzione personale come un flusso in continuo divenire in cui è possibile imparare da chiunque attraverso la parola e l’onestà emotiva, anziché immaginarsela come una freccia che punta in un’unica direzione composta da scalini da percorrere con analfabetismo sentimentale.
Voto: 8
Edoardo Cappelli