
Quando si legge “Ridley Scott” sulla locandina si entra nel cinema in punta di piedi, in rigoroso e rispettoso silenzio. A maggior ragione se ci si trova davanti un cast del genere. L’assortimento di attori che costella l’ultima pellicola del regista di alcuni dei film di fantascienza più belli di sempre somiglia tanto a una delle classiche e ormai apparentemente poco sfruttate manovre di Hollywood, in cui i nomi sul cartellone sono il traino per il pubblico verso la sala. Manovra commerciale che consiste nel riempire il palinsesto di cognomi importanti sovrastati da una minuscola scritta che ricorda le varie candidature o le vittorie agli Academy Awards; e che ha il retrogusto dell’era dei blockbuster americani garanzia di magia e stupore. Si respira nuovamente un’aria di culto delle star del cinema che sembrava ormai sparita all’interno del rimescolamento dello streaming. Il rischio, dopo così tanti anni di carriera e soprattutto con la tendenza del Nostro a non essere esattamente un esempio di continuità, è quello di non riuscire a gestire cotanta magniloquenza. Nel caso specifico, ci troviamo dinnanzi a un film dove ogni attore sembra portare la propria idea di recitazione in maniera prepotente sullo schermo. Non vi è una vera coesione tra le parti e ogni (leggendario) membro della squadra recita secondo i propri schemi, non amalgamandosi perfettamente con quelli degli altri.
Abbiamo così uno statuario e monolitico Adam Driver che interpreta Maurizio Gucci – nipote del vecchio imperatore del lusso Rodolfo, un Jeremy Irons che affonda le unghie giocando sulla corporalità –, innamorato di Patrizia Reggiani, incolta donna del popolo piena di aspirazioni per sé e per il marito, interpretata da una raggiante ed estroversa Lady Gaga. Scontratisi in seguito a un litigio riguardo la sua relazione con Patrizia, Maurizio taglia ogni ponte con il padre e con il business della casata, finché non viene tirato dentro dall’istrionico zio Aldo (un Al Pacino incredibilmente privo di polvere), il quale non ha nessuna stima per le abilità creative del figlio Paolo (Jared Leto, truccato da Dio, incredibilmente esagerato nell’interpretazione e nell’accento). Ognun per sé, senza Ridley Scott a dirigere tutti. Da qui si susseguiranno i giochi di potere interni che dilanieranno i rapporti di sangue; vero fulcro di una pellicola che non lesina nei dialoghi.
La mancanza di coesione nella direzione degli attori, tuttavia, non si riscontra nell’andamento narrativo del film. Il ritmo è regolare e segue un crescendo che trova la sua completa realizzazione nella seconda metà. I quasi centosessanta minuti di immagini in movimento non sono forse propriamente giustificati, visto che l’opera all’inizio indugia lungamente sull’evoluzione della storia romantica tra Maurizio e Patrizia. Eppure, da quando Scott decide di mostrarci i conflitti e le animosità familiari, il tutto assume un connotato più coinvolgente. Grazie a questa progressione non si soffre l’enorme durata, sebbene il risultato finale avrebbe ben giovato da un taglio di almeno venti minuti.
Nonostante un’alternanza bislacca tra l’inglese e l’italiano – i personaggi parlano inglese tutto il tempo ad eccezione di alcune sporadiche occasioni senza un criterio apparente, inevitabilmente affossati dal loro accento di origine che potrebbe realmente essere salvato da un doppiaggio univoco –, Scott è anche abile nel non cadere nell’annoso tranello che puntualmente fustiga tutti i registi americani intenti ad ambientare un film in Italia: la mortale stereotipizzazione dell’ambientazione. L’Italia del film è un’Italia posata, non eccessiva, esteticamente moderata. Probabilmente ciò è favorito dall’aver costruito una storia intorno a dei personaggi altolocati e benestanti, senza il problematico bisogno di far vedere la “veracità” della parte popolare del nostro paese (che ormai esiste solo nelle fantasie oltreoceano).
A questo sopraggiunge la fotografia che manca incredibilmente di calore. Qualcosa di inusuale, in film del genere. “House of Gucci” traspone perfettamente la sensazione di catastrofe imminente e gelo emotivo che ritroviamo nella storia, evitando di sacrificare il senso narrativo della luce e del colore sull’altare della rappresentazione romantica del paese mediterraneo di turno. I luoghi sono freddi e sterili, come i personaggi. Per la stragrande maggioranza del tempo, siamo avvolti nella nebbia e nel freddo. Le uniche esplosioni di colore emergono nelle scene girate negli appariscenti negozi delle catene Gucci, in cui lo sfarzo e il lusso sovrastano la realtà circostante. I personaggi stessi, d’altronde, sottolineano più volte come i prodotti Gucci non siano oggetti che possono essere comprati da chiunque. Il marchio li avvolge e li ingloba, esautorando la loro individualità. Jeremy Irons in una scena dice che “i prodotti Gucci non appartengono a un centro commerciale, appartengono ad un museo”. In questo senso è anche notevole la differente caratterizzazione degli spazi che circondano i personaggi di Rodolfo e Aldo. Il primo si trova spesso in stanze buie e polverose o in strade ombrate, riflesso della sua età e del suo carattere austero. Al contrario, Aldo riflette la sua personalità scintillante nei colori dei propri vestiti e nelle ampie riprese sulle campagne toscane. In mezzo troviamo Maurizio e Patrizia, i quali verranno lentamente divorati dalla fame di potere, lasciando completo spazio alla propria brama calcolatrice; in sontuoso contrasto col loro aspetto esteriore, angelico ed elegante.
L’estetica desaturata va a compensare l’assenza di pathos in alcuni passaggi chiave. Ahimè, nel film si avverte poco l’importanza di alcuni risvolti di trama o l’emotività di alcuni momenti intimi, anche a causa di alcune scelte di montaggio che non danno modo alle vicende di sedimentare nella mente dello spettatore. I rapidi cambi di inquadratura e ambientazione catapultano il pubblico nella scena successiva. In questo modo si è troppo impegnati a seguire il filo delle varie sequenze per avvertire il pericolo o il fastidio. Il racconto ruota attorno a dei personaggi cardine; mentre la scrittura favorisce un’introspezione raccolta che toglie spazio alla contestualizzazione storica per concentrarsi sulle loro interazioni personali. Conseguentemente, la rilevanza dei vari comprimari ne risente, rendendo i personaggi di contorno delle spole a cui i cinque principali si appoggiano alla bisogna. Essendo questo un film che sfiora le tre ore, è evidente che ci sia un problema di tempistiche. Lodevole, tuttavia, l’esplorazione dell’umanità dei personaggi e della loro mancanza di scrupoli, conseguenza delle loro cieche aspirazioni. Il concetto di “famiglia” perde il suo significato più positivo. Diventa un impedimento per la scalata verso il successo. In questo senso, Scott è abilissimo a raccontare senza giustificare. Umanizzare senza edulcorare.
Voto: 6
Edoardo Cappelli