Re Granchio

21/12/2021

di Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis
con: Gabriele Silli, Maria Alexandra Lungu

Veniamo accolti dalla pellicola con un gruppo di anziani, i quali si riparano dal freddo all’interno di quello che sembra essere un normale rifugio di montagna. Intenti a scaldarsi, discutono di quello che gli balena in mente lasciando fluire una serie di brusii incomprensibili. Successivamente sopraggiunge la necessità di combattere la noia; ed è in quel momento che subentra la voglia e la spinta di raccontare delle storie. “Prima non c’era la televisione, la sera ci si riuniva davanti al camino e si raccontavano queste leggende”, afferma uno degli anziani al tavolo. Una frase che potrebbe avere le sembianze di una reminiscenza nostalgica, ma che in realtà riassume alla perfezione il bisogno umano di illudersi con la fantasia per combattere una realtà insoddisfacente, la quale rammenta costantemente la piccolezza dell’uomo. È il fulcro spirituale di tutto il film. Cambiano gli strumenti con cui una storia viene raccontata, ma il fatto che l’animo umano aneli alla meraviglia immaginifica è eterno.

Da qui il tutto diviene metanarrativo. Le vicende dell’opera sono costituite da ciò che gli anziani raccontano. Ambientato nel tardo Ottocento, nell’epoca dei principi che governavano i piccoli borghi, entriamo nella ribelle testardaggine del protagonista Luciano (Gabriele Silli). Riconosciuto come l’ubriacone del luogo, pecora nera costantemente insoddisfatta e infastidita dallo stato di cose, con un passato recente come paziente di manicomio. Unica voce che ha l’ardire di opporsi alle prepotenze del principe locale. La sua barba e i suoi baffi, folti ed incolti, si mescolano perfettamente alle sterpaglie dei boschi circostanti. Quella che lo riguarda è una storia di innamoramento nei confronti della giovane Emma (Maria Alexandra Lungu), che lo ricambia ma è inevitabilmente frenata dall’ostilità dei locali nei confronti di Luciano. Durante una manifestazione religiosa locale, un evento avverso costringe Luciano a fuggire in Patagonia, alla ricerca di un misterioso tesoro cantato dalle leggende, raggiungibile seguendo i lenti e imprevedibili passi di un granchio. Da qui il film si riprende il ruolo di guida narrativa, in quanto neppure gli anziani dell’introduzione sono a conoscenza di come la storia si evolve. Siamo quindi catapultati nell’effettiva realtà delle cose, oppure come pubblico ci stiamo semplicemente appigliando all’ennesima illusione di immaginazione per godere di un po’ di intrattenimento, stabilendo una fittizia relazione con ciò che accade nello schermo, presente solo nella nostra testa e nella nostra sospensione di incredulità? Impossibile saperlo: è la magia del cinema.

Salta immediatamente all’occhio l’importanza contenutistica dell’ambientazione. Il paese nel viterbese in cui è girata tutta la prima parte è inondato dalla vegetazione selvaggia che mangia la pietra e circonda le vite umane (ben più labili e passeggere). Le riprese statiche senza particolari movimenti di macchina ci rimandano al crudo realismo della messa in scena, ondeggiando tra il dialetto dei popolani del borgo (dove credo nessuno fosse un attore professionista) e mondi vastissimi, resi accessibili nonostante la penuria di mezzi e budget. La storia d’amore dei due personaggi si evolve con costanza senza consumarsi mai. Una scelta di portare avanti il loro sentimento che mi ha ricordato in maniera netta il cinema di Wong Kar-Wai. A differenza del cineasta di Hong Kong, il quale usa questioni esistenziali e circostanze enormi come ostacoli alla soddisfazione dei desideri dei personaggi, quest’opera mette dei confini netti e circoscritti. Luciano, anarchico vagabondo senza meta, non gode della reputazione che i suoi compaesani rurali sembrano tenere tanto in considerazione. I potenti del film, nonostante la loro crudeltà e disprezzo verso l’uomo comune, fanno leva sulla sudditanza della comunità che non osa mettersi contro coloro che hanno in mano i mezzi della violenza armata. Un elemento “donchisciottesco”, quello dell’outsider che va contro i mulini a vento per realizzare un proprio sogno.

La seconda metà della pellicola gira interamente attorno all’altro grande classico topos presente nella storia: la ricerca dell’oggetto desiderato attraverso il viaggio dell’eroe, la lotta con gli antagonisti che ne intralciano il cammino, l’elemento/aiutante “magico”. Tutto rimescolato in una salsa tremendamente terrena e popolare, fatta di polvere, sabbia e sangue, nella natura incontaminata della Terra del Fuoco argentina. Il singolo contro il tutto; l’uomo contro la natura. L’avidità dei personaggi ad ogni livello porta alla catastrofe, tanto da domandarsi quale sia l’essenza del tesoro agognato da tutti. Quello che resta di sicuro sono i ricordi di una vita da cui il protagonista è stato costretto a fuggire. In questo senso Luciano ci rappresenta, mentre siamo costantemente alla ricerca di qualcosa che possa farci dimenticare quanto la realtà sia banale, senza però eclissare la sua effettiva e spietata esistenza.

Voto: 7,5

Edoardo Cappelli