
Ci sono dei dolori che rimangono inascoltati, persi nelle colonne inscalfibili della ritualità. Al rito non possono apporsi compromessi o eccezioni varie, altrimenti non sarebbe più tale. Per definizione un rito presuppone delle modalità e delle manovre prestabilite che non possono mai uscire dalla loro statuaria ripetitività. Essendo sostenuto da un fine da raggiungere, un rito è attivabile unicamente con le corrette esecuzioni. “Piccolo Corpo” di Laura Samani usa questa riflessione per raccontare una Divina Commedia povera e materna: un percorso di maturazione e indipendenza della protagonista. Ambientato in un piccolo paesino sperduto tra il Friuli e la Slovenia, il film parla di Agata (Celeste Cescutti), che dopo – e nonostante – aver preso parte a un rito di purificazione prenatale, partorisce una bambina già defunta. Al dolore per la perdita, e all’apparente indifferenza del compagno, si aggiunge la tensione della consapevolezza che la bambina, andatasene col peccato originale addosso in quanto non ancora battezzata, sarà costretta a vivere nel limbo per l’eternità. Il prete locale non può farci nulla: “è la regola”. Ad Agata giunge voce di una chiesa isolata tra le montagne del confine, dove un’eremita fa rivivere i bambini nati morti per pochi secondi, in modo da poterli battezzare garantendo loro l’accesso al Paradiso.
La missione di Agata è interamente solitaria e contraria a ogni principio della comunità in cui vive. Per questo non ne parla con nessuno. Dissotterra il cadavere della figlia per portare con sé la bara (una modestissima scatola di legno) e si avventura nei boschi impervi del nord-est. La base della storia è ovviamente oggetto di fantasia, molto derivativa della letteratura dantesca. La selva; il traghettatore di anime sul lago ghiacciato; la necessità di incamminarsi dall’Inferno verso il Paradiso, sono tutti elementi che possiamo ricondurre all’opera somma di Dante. Persino la presenza della guida all’interno degli ambienti ostili, un Virgilio femminile ma androgino di nome Lince, per via degli occhi chiari e della furbizia che lo contraddistingue (Ondina Quadri). Di Lince sappiamo ben poco. La sua storia è profondamente avvolta nel mistero, ma la pellicola ci offre degli sporadici spunti per permetterci di ricostruirla nella nostra mente. Il risultato è quello di un’ennesima anima sola e incompresa, impermeabile alla presenza di altri esseri umani vista la mancanza degli affetti basilari. La solitudine spirituale e concreta al tempo stesso dei due personaggi principali dà vita a un interessante rapporto di convenienza e amicizia, che sembra avere i margini per potersi evolvere in qualcosa di più (aspetto che, ahimè, rimane solo sullo sfondo del film senza mai palesarsi appieno).
Nonostante ciò, la messa in scena e la rappresentazione dei personaggi sono intimamente realiste. A questo contribuisce il fatto che i dialoghi del film sono tutti in stretto dialetto friulano, il che riporta alla mente l’idea di poesia popolare di Pasolini. Lodevole, a tal proposito, il lavoro di fotografia di Mitja Licen che riporta ottimamente la cruda realtà dell’ambientazione. Il grigiore e la mancanza di saturazione della “vita reale” contrastano con la penombra e i chiaroscuri della natura selvaggia; degli spazi angusti e claustrofobici; dei ritrovi pieni di anziane signore simili a streghe in grado di guarire e accudire chi ha bisogno – senza mai però rinunciare a chiedere qualcosa in cambio come nella migliore tradizione stregonesca –; per poi aprirsi sulle vallate sconfinate piene di luce. Interessante anche la contrapposizione dei luoghi nativi delle due protagoniste. Agata porta la salinità e l’immensità del mare nella vita di Lince, creatura delle montagne. La scenografia, simbolo di una tensione verso un infinito indecifrabile, è in questo senso vitale per trasportarci all’interno dell’animo delle due.
Come già accennato in precedenza, il film si apre con una gravidanza problematica, nonostante la buona riuscita dei riti propiziatori. Un po’ come “Midsommar” di Ari Aster, il rito non è altro che una pianificazione calcolatrice dell’esistenza, che è invece per definizione qualcosa che non può essere compresa. Di conseguenza, coloro che ne prendono parte sono costretti a rinunciare alla propria libertà individuale, in quanto la loro presenza sulla Terra è utile solamente in funzione della pratica collettiva del rito. “Piccolo Corpo”, a questo, aggiunge la pulsione materna. Il sentimento è percepibile sebbene mai mostrato, a causa ovviamente dell’assenza della figlia nel film. L’evoluzione di Agata nei confronti del mondo è rappresentata perfettamente nella scena della miniera. Per completare una parte notevole del tragitto in fretta, le due ragazze sono costrette a passare attraverso una pericolosa e labirintica miniera. Vengono avvertite da coloro che sono all’entrata dell’impossibilità di avventurarsi all’interno: la montagna vede chi vi passa e decide di portarseli via. Agata, ormai scevra di ogni paura, si sparge un po’ di fuliggine sul volto per poi addentrarsi con sicurezza nei meandri rocciosi.
Laura Samani riflette ampiamente sul concetto di anima e su quello di esistenza, con una forte presenza dell’elemento del nome come affermazione personale. La figlia di Agata non esiste in quanto non possiede neppure un nome. Allo stesso modo non esiste Lince, che vive con un soprannome di dubbia provenienza, senza che noi sappiamo come si chiami realmente. Agata si fa carico dell’eternità della bimba, mossa da un disgusto verso l’ingiustizia della religione istituzionale che vuole condannare all’eternità una creatura che non ha avuto modo di esprimersi, ma che è peccatrice in quanto esistente e non ancora ufficialmente parte della comunità. Agata, invece, decide di agire in maniera indipendente per affermare la propria presenza. Il fatto di aver preso una posizione fuori dal convenzionale suggella la solitudine della protagonista, la quale però avrà l’opportunità di riscoprirsi nel proprio amore (meravigliosa la scena sott’acqua del finale, in questo senso). Lince fa in un certo senso la stessa cosa, ma non possiede – almeno inizialmente – quel trasporto spirituale che la conduce a lasciare indietro i propri demoni. Ed è nell’unione tra fede e superstizione che si afferma la reale partecipazione dei personaggi nel mondo. Siamo il prodotto delle scelte che scegliamo di compiere.
Voto: 7,5
Edoardo Cappelli